Oggi parliamo dell’ennesima strage italiana, ovviamente senza nessun colpevole nonostante le commissioni di inchiesta, che ha causato la morte di 517 cittadini meridionali secondo le stime ufficiali.
In realtà, si crede che i decessi siano stati molti di più, oltre seicento, mentre alcuni dei novanta sopravvissuti riportarono danni cerebrali permanenti.
Era da un’ora trascorsa la mezzanotte del 3 marzo 1944, quando il treno 8017, classificato merci ma pieno di viaggiatori clandestini, partito dalla stazione di Balvano, a confine tra Campania e Lucania, imboccò la Galleria delle Armi, ma non riuscì mai a raggiungere la stazione successiva.
Il treno era diretto a Potenza, forse destinato alla raccolta di legname per scopi militari, ed era partito circa ventiquattr’ore prima da Napoli, col numero 8015.
Sebbene fosse un treno merci, a bordo del convoglio salirono centinaia di persone, alcune delle quali “costrette” perché il treno passeggeri diretto a Bari del giorno precedente era stato preso d’assalto e completamente occupato già alla partenza da Napoli.
La maggior parte dei viaggiatori era diretta in Basilicata, forse in Puglia, per scambiare utensili e stoffe con il cibo; in quel periodo, infatti, il baratto era l’unica moneta di scambio.
Durante le fermate intermedie, il treno si riempì di oltre 600 passeggeri “clandestini”, che trovarono posto all’interno dei vagoni merci, aggrappati ai lati delle carrozze e in ogni altro punto che lo permettesse.
Le ferrovie, nel 1944, erano amministrate dalle forze alleate con manodopera italiana. Alle stazioni di Salerno e Battipaglia i soldati cercarono di far scendere i passeggeri, sparando in aria con le armi d’ordinanza, ma questi tentativi furono di fatto inutili, perché tutti risalirono sul treno alla prima occasione buona, qualche metro dopo.
Intanto, era calata la sera. Da Battipaglia, il treno cambiò denominazione in 8017 e fu permesso ai passeggeri di proseguire indisturbati verso Potenza.
La prima causa della strage fu il sovraffollamento.
Il treno 8017 continuò a essere considerato un trasporto merci, anche se a bordo c’erano oltre 600 passeggeri, tuttavia nessun dipendente delle ferrovie segnalò la presenza di un così alto numero di clandestini a bordo, probabilmente anche perché, all’epoca, spesso si viaggiava così.
Per via delle forti pendenze, la linea ferroviaria Napoli – Potenza era, e lo è ancora oggi, una delle più difficili e isolate della Penisola. Al confine tra Campania e Basilicata i binari si inerpicavano tra monti e torrenti attraverso decine di gallerie scavate con dislivelli che si avvicinavano ai limiti imposti per la percorrenza.
Nei tunnel, gli incidenti per intossicazione da monossido di carbonio erano all’ordine del giorno, per questo motivo una coppia di macchinisti “di riserva” si posizionava al termine dei trafori più lunghi e saltava sulla locomotiva in corsa per governarla al posto di quelli svenuti o storditi.
Gli stessi macchinisti sapevano, inoltre, che, in prossimità delle gallerie, dovevano coprirsi naso e bocca con un panno bagnato per evitare svenimenti.
Il treno 8017 partì da Napoli trainato da una locomotiva a vapore di fabbricazione austriaca, che fu data alle Ferrovie Italiane come riparazione per i danni della Prima Guerra Mondiale, alla quale poi venne aggiunta una più potente di fabbricazione italiana.
Quest’ultima, però, fu aggiunta in testa al treno e non in coda, contribuendo non poco al disastro. Infatti, all’epoca, in caso di doppia trazione, la locomotiva di rinforzo doveva essere posta in coda, per evitare l’accumulo di gas velenosi all’interno dei tunnel.
Il treno, tuttavia, continuò la sua corsa con due locomotive in testa, le quali, peraltro, presentavano postazioni di guida ai lati opposti per via delle diverse origini di fabbricazione, quella italiana aveva la guida a sinistra, liaustriaca a destra.
Come se non bastasse, a Battipaglia vennero aggiunti altri vagoni merci, che portarono la lunghezza complessiva del treno ad oltre 400 metri per un peso, con ogni probabilità, superiore ai limiti previsti per quella linea.
Infine, il carbone utilizzato per far marciare le locomotive dopo lo sbarco degli Alleati e il ritiro delle truppe tedesche non era più quello tedesco, proveniente dalla regione della Ruhr, considerato di buona qualità, ma di provenienza sconosciuta e di bassa qualità, quindi, con un’alta presenza di scorie e cenere al suo interno.
La scarsa qualità del carbone, oltre ad ostruire più facilmente le locomotive, forniva meno potenza e produceva una maggior quantità di gas nocivi, peggiorando, così, i rischi per macchinisti e passeggeri nei tratti in galleria.
Dopo circa 16 ore dalla partenza, dopo la mezzanotte, il treno arrivò nella piccola stazione di Balvano, isolata località appena oltre il confine campano e incastonata tra due trafori.
Il convoglio si fermò per quasi un’ora, poiché, essendo la linea ad un solo binario, doveva attendere un treno che viaggiava in direzione opposta ed essendo molto lungo, quasi metà era stazionato nella galleria precedente, dove le locomotive avevano lasciato fumi tossici. Forse, i passeggeri rimasti nel tunnel iniziarono a intossicarsi già prima che il treno partisse e percorresse la successiva “Galleria delle Armi”, lunga quasi due chilometri e nota per essere poco ventilata, dove avvenne il disastro.
Per giunta, essendo sopraggiunto un altro treno, vi era il ristagno di gas nocivi.
Ricevuto l’ordine di partenza, causa il peso, il tratto in salita e le rotaie scivolose per la rugiada notturna, il treno iniziò la sua marcia, arrancando notevolmente e stentando a prendere velocità. A metà galleria la situazione peggiorò, ma i macchinisti delle due locomotive presero decisioni opposte: uno cercò di aumentare la potenza, per raggiungere l’uscita al più presto, anche se il treno viaggiava sempre a passo d’uomo, l’altro invertì il senso di marcia per tornare indietro.
Il convoglio iniziò quindi a slittare sui binari umidi e, secondo le testimonianze, si mosse avanti e indietro per alcuni minuti fino all’intervento del frenatore in coda, che, quando avvertì il cambio di marcia in pendenza, bloccò le ruote, come da regolamento. Il treno si bloccò così all’interno della galleria, lasciando fuori soltanto due vagoni.
Macchinisti e fuochisti furono probabilmente i primi a morire asfissiati, tranne uno che si salvò perché svenne e cadde giù dalla cabina, finendo sopra un rigagnolo d’acqua che portava con sé un filo di ossigeno.
Chi si salvò aveva il volto coperto con sciarpe o altri indumenti e riuscì a raggiungere l’uscita. Tutti gli altri restarono all’interno della galleria e morirono intossicati.
Chi non fece in tempo a uscire cadde ai lati del treno, venendo poi calpestato dai passeggeri in fuga, altri morirono nel sonno. I pochi che vennero tirarti fuori vivi ma privi di sensi dalla galleria, ebbero danni cerebrali permanenti.
L’allarme venne dato soltanto alle cinque del mattino e i soccorritori arrivarono sul posto verso le sette. I corpi dei viaggiatori vennero disposti in fila lungo i marciapiedi della stazione.
I militari proposero di bruciare le salme in un campo poco lontano, ma furono fermati da un abitante di Balvano, che donò un pezzo di terra confinante col cimitero per la sepoltura. Venne quindi scavata una fossa comune, dove i defunti trovarono una sepoltura cristiana.
Le forze alleate imposero la censura e attribuirono il disastro alla scarsa qualità del carbone. Molti cadaveri non vennero mai identificati e solo alcuni familiari ebbero diritto a un indennizzo negli anni successivi.
Soltanto nel dopoguerra ci furono le prime ricostruzioni dettagliate dell’accaduto.
A ricordo del disastro di Balvano, esistono soltanto poche lapidi e alcune vie intitolate ai passeggeri del treno nei loro paesi di provenienza. Ma per i potenti sono solo morti di Serie B.
Mimmo Bafurno, esperto di comunicazione e scrittore, ha collaborato con le maggiori case editrici. In uscita il suo volume "Image EDITING", attualmente collabora con terronitv.
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