I 100 migliori album di debutto di tutti i tempi | Rolling Stone Italia

2023-03-16 16:48:27 By : Ms. May Wang

Da 'Please Please Me' dei Beatles a 'Is This It' degli Strokes, la classifica dei dischi d'esordio che hanno fatto epoca: grandi classici, best seller e qualche sorpresa

Come gli incipit dei grandi romanzi o il primo episodio di una serie di culto, gli album di debutto hanno sempre avuto un fascino particolare. Per i critici (e il pubblico) più snob contengono gli elementi essenziali della poetica di un artista, ovviamente non ancora sviliti dal terribile mercato discografico; per questo, spesso vengono trattati come metro di paragone definitivo per il resto della loro discografia. Ma qual è il migliore in assoluto? Per rispondere a questa domanda, abbiamo stilato una lista dei 100 migliori album di debutto di tutti i tempi. Un appunto su come abbiamo redatto la lista: ad alcuni album sono stati dedotti dei punti se l’artista ha compiuto imprese più grandi (ed è questo il motivo per cui Please Please Me e Greetings from Asbury Park, nonostante siano grandiosi, non sono arrivati in Top 10; al contrario, abbiamo messo un po’ più in evidenza album di debutto pazzeschi che non sono mai stati eguagliati dai loro artisti (ciao, Is This It e Illmatic!). Abbiamo inoltre escluso gli album di debutto da solisti di artisti che erano in band già conosciute, che è il motivo per cui non troverete John Lennon o l’album omonimo di Paul Simon. Ci siamo concentrati, invece, sui debutti di artisti già a fuoco, pronti a reinventare il mondo a loro immagine e somiglianza.

Il titolo suonava probabilmente come una mera illusione nell’agosto 2008, quando l’album di Stefani Germanotta ha ricevuto un’accoglienza molto fredda dai responsabili dei palinsesti radio e dagli ascoltatori. Nella primavera del 2009, però, Germanotta, aka Lady Gaga era diventata più che famosa. Il suo debutto ha cambiato le regole del gioco, ha fatto del dance-pop lievemente dark e sostenuto da un martellante beat in quattro-quarti tipico dell’eurodisco il sound dominante nelle classifiche globali. E ha fatto conoscere al mondo un modo nuovo, scandaloso e sopra le righe di concepire le dive pop grazie a una provocatrice moderna che trattava il mondo intero come il suo red carpet. I Paparazzi di cui cantava non erano metaforici, d’altronde.

99. “The Gilded Palace of Sin” The Flying Burrito Brothers

“Siamo una band rock & roll travestita da band country”, ha detto Gram Parsons dei Burritos, il cui primo album è un capolavoro poco noto degli anni ’60 che ha gettato le fondamenta sia per il country rock dei ’70 che per l’alt country contemporaneo. Parsons e Chris Hillman hanno formato i Burritos dopo aver entrambi abbandonato i Byrds. Su più livelli, Gilded Palace riparte da dov’era rimasto Sweetheart of the Rodeo dei Byrds. Il camaleontico Parsons e l’equilibrato Hillman hanno progettato un manifesto incredibilmente coerente di inni hillbilly pieni di ironia, cover originali e armonie a due voci belle da star male, il tutto accompagnato dalla chitarra steel di Sneaky Pete Kleinow.

Joe Jackson non ci sapeva fare con le parole come Elvis Costello e non aveva lo stile da soul man bianco di Graham Parker. Ma il suo debutto dimostrò che era in grado di eguagliare i suoi giovani rivali britannici lì dove contava di più: canzone per canzone. Look Sharp! è un breve, ma acuto album di pop new wave, che andava da canzoni nettamente punk (Got the Time) a ballad spiritose (Is She Really Going Out with Him?), da commenti sulla società (Sunday Papers) fino a dolorose storie d’amore (One More Time). Arma segreta: la feroce band di quattro membri di Jackson, specialmente il bassista Graham Maby, che quasi ruba la scena.

L’improbabile salvatore dei DJ Josh Davis ha fatto con i piatti più o meno quello che Hendrix ha fatto con la chitarra, introducendo bravura tecnica, una bellezza incontaminata e tessiture sfaccettate usando quello che alcuni luddisti rock ancora non consideravano un vero strumento musicale. Veniva dalla scena trip-hop della Mo’ Wax, ma tracce come Permanent Slump e Changeling avevano molto più in comune con esplorazioni rock psichedeliche più che con qualsiasi cosa che DJ Krush stesse facendo. Ma i beat, ricchi e crepitanti, prendevano a piene mani da album scoperti in una vita da ricercatore di vinili e ricordò a tutti il lato divertente e libero dell’hip hop.

Madonna l’ha definito come il suo “disco per fare aerobica”. Eppure il disco ha lanciare la voce femminile più importante nella storia della musica moderna ed è anche invecchiato molto meglio dal punto di vista sonoro di Like a Virgin, il suo secondo celeberrimo LP del 1984. Pieno di hit come Borderline e Holiday (quest’ultima prodotta con il suo allora fidanzato, John “Jellybean” Benitez) e il grandioso inno Everybody, portò il groove elettronico di Downtown New York nella Top 40. Fun fact: funziona da dio anche come musica per l’aerobica.

95. “Here’s Little Richard” Little Richard

“Venivo da una famiglia a cui non piaceva il rhythm and blues”, disse Little Richard a Rolling Stone nel 1970. “Bing Crosby, Pennies From Heaven ed Ella Fitzgerald erano tutto quello che ascoltavo. E sapevo che c’era qualcosa che poteva essere ancora più forte, ma non sapevo dove cercarla. L’ho trovata in me stesso”. Il rauco debutto di Little Richard è una collezione di singoli come Good Golly, Miss Molly, in cui il suo spensierato pianoforte boogie-woogie e le sue urla in falsetto incendiavano le infinite opportunità del rock & roll. Tutti Frutti contiene una di quelle che viene ancora oggi considerata tra le frasi più ispirate del rock: “A wop bop alu bop, a wop bam boom!”.

94. “The Who Sings My Generation” The Who

Gli Who esplosero dalla scena mod di Londra e con l’album di debutto hanno portato il rock and roll a nuovi livelli di intensità e volume. Erano in modalità “maximum R&B”: versioni di ballad di James Brown rese con accordi potenti e spinte da una sezione ritmica che filava come un treno. Assillato da un manager che voleva che rinforzasse la sua demo troppo rilassata di My Generation,Pete Townshend provocò un’esplosione tale da aprire un varco verso il futuro. Nella sua cruda intensità, My Generation ha tracciato la strada per molto del garage rock, punk ed heavy metal fioriti negli anni successivi.

93. “Almost Killed Me” The Hold Steady

Già ai tempi del primo album questi ragazzi di Brooklyn-via-Minneapolis avevano tutto: droghe, sesso, senso di colpa cattolico, chitarre scadenti da bar band. Craig Finn farfuglia i suoi pazzi versi su feste andate male, da “Mary got a bloody nose from sniffing margarita mix” fino a “I did a couple favors for these guys who looked like Tusken Raiders”. Certain Songs è un omaggio a un bar il cui jukebox è in equilibrio perfetto fra Meat Loaf a Billy Joel. Commerciale? Non esattamente. Eppure gli Hold Steady suonavano così veri e vivi, pieni di spirito, compassione ed energia da diventare un successo grazie al passaparola.

Che casino bellissimo che erano i Moby Grape e quanto fantastico rumore nel loro album di debutto, una rappresentazione mozzafiato del rock di San Francisco nel suo picco del ’67. Jerry Miller, Peter Lewis, Don Stevenson, Bob Mosley e Skip Spence cantavano tutti come demoni e scrivevano canzoni pop fresche e piene di entusiasmo lisergico country-blues. E i tre chitarristi della band – Miller, Spence e Lewis – facevano scintille in canzoni come Omaha, Changes e Hey Grandma. La Columbia spinse questo album fino alla morte (pubblicando cinque singoli in una volta sola), ma le canzoni sono entusiasmanti adesso come lo erano nel ’67. Questo è power pop hippie nella sua forma più genuina.

“London calling, speak the slang now”, cantava la rapper anglo-srilankese Maya Arulpragasam e nessuno poteva lamentarsi della citazione dei Clash. Arular era il suono del punk e dell’agit prop del XXI secolo, una marcia di protesta, una manifestazione e un carnevale su beat martellanti e chiassosi. La produzione, fatta da M.I.A. e dal suo allora compagno Diplo, rimaneggiò l’hip hop come fosse la musica di un party lo-fi globale. Ma è M.I.A. il centro dell’album, quando flirta (“My fingertips and the lips / Do the work, yeah / My hips do the flicks”), lancia slogan (“Pull up the people, pull up the poor”), punzecchia (“You can be a follower but who’s your leader?”), o semplicemente quando si lascia andare a un glorioso nonsense. “Purple Haze / Galang a lang a lang lang”.

Alex Chilton e Chris Bell erano gli enfant prodige di Memphis quando fondarono i Big Star. Il loro era un mix di elegante pop britannico e hard rock americano, dal crescendo di Feel all’acustica Thirteen, una delle più belle canzoni d’amore mai scritte. Chilton, che era stato una star da adolescente nei Box Tops, cantava con voce acuta e limpida che cozzava contro le chitarre. L’idealismo back-to-basics dei Big Star non vendette molte copie nella scena dei primi anni ’70 dominata dal progressive rock, ma col passare del tempo ha ispirato artisti come R.E.M. e Replacements.

89. “Upstairs at Eric’s” Yazoo

Il manifesto definitivo del synth pop anni ’80. Alison Moyet era la cantante sfacciata dalla voce soul, Vince Clark il tastierista un po’ geek che premeva i tasti. Insieme, hanno fatto un album pieno di classici da club come Situation, Too Pieces e Don’t Go, assieme a Midnight, una torch ballad che Smokey Robinson avrebbe potuto scrivere per Dusty Springfield. Clarke aveva già avuto un po’ di fama con i Depeche Mode, ma li aveva lasciati dopo che avevano rifiutato Only You, che divenne la prima hit degli Yazoo (Yaz negli Stati Uniti). Si dedicò dunque agli Erasure e la Moyet a hit da solista, ma la loro partnership, seppure breve, fu la quintessenza del romanticismo dai capelli rasati ai lati.

Il debutto dei Daft Punk è talmente brillante da mandare in palla le sinapsi. Il duo francese formato da Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo ha dimostrato che la techno e la house possono essere elastiche, orecchiabili e a volte divertenti tanto quanto il pop più commerciale senza diluire la loro essenza ipnotica e acida. Homework aveva un paio di chicche – come Da Funk e l’inno Around the World. Ma aveva anche il ritmo di un grande album, che intrecciava hip hop e funk (e, in Rock N Roll, anche un po’ di glam anni ’70) con pause contemplative (come Flesh, intrisa di chitarre) e skit con influenze hip hop come WDPK 83.7 FM, in cui un dj robotico dall’accento francese promette “il suono del domani e la musica di oggi”. Considerando la loro imponente influenza su tutta la successiva EDM, quella boria suona come una pubblicità tutto sommato onesta.

87. “Mass Romantic” The New Pornographers

“Where have all sensations gone?”, si chiedeva Neko Case nel debutto di questa band di Vancouver. Un sacco di indie rocker si chiedevano lo stesso durante il nadir della musica dei tardi anni ’90. I New Pornographers hanno dato alla scena una scossa di energia e divertimento che mancava da un pezzo. Carl Newman, fan di Burt Bacharach,Dan Bejar, ossessionato da Bowie, e l’incendiaria countrywoman Neko Case non avevano molto in comune sulla carta, ma canzoni come Letter from an Occupant e la title track crescono con guizzi elettrici, ritmi da roundhouse e ritornelli su ritornelli. Si tratta di power pop che non si ferma nemmeno un minuto.

86. “good kid, m.A.A.d city” Kendrick Lamar

L’ultima cosa che l’hip hop si aspettava nel 2012 era un album come quello di debutto di Kendrick Lamar: un trionfo mainstream da una star totalmente inaspettata, un classico basato su vere e proprie storie, e non su frasette o millanterie, una lente crepata attraverso cui guardare alla terra sacra del rap, Compton, California. In good kid, m.A.A.d city, Lamar mette in scena desideri spirituali e dilemmi morali su un rigido sfondo di violenza da gang e abusi di potere della polizia. Quando Lamar sfodera una tracotanza da far rizzare i capelli – “I pray my dick get big as the Eiffel Tower / So I can fuck the world for 72 hours” – il trionfalismo sembra più che guadagnato.

85. “Rage Against the Machine” Rage Against the Machine

“Credo nell’abilità di questa band di colmare il vuoto che c’è tra l’intrattenimento e l’attivismo”, ha detto Zack de la Rocha. Le sue idee politiche radicali hanno trovato un terreno fertile nella chitarra di Tom Morello. In canzoni come Killing in the Name e Bullet in the Head, la chitarra effettata di Morello suona come uno scratch da dj, una sirena antiaerea e i Led Zeppelin allo stesso tempo, e la voce da veterano hardcore punk di de la Rocha è più esplosivo di una bomba: “They say jump / you say how high”. Hanno dato vita a un milione di imitatori rap-rock, ma dar loro la colpa per i Limp Bizkit è come dare la colpa al sole per le erbacce.

Il debutto blockbuster dell’allora 21enne Whitney, una grandiosa cantante pop con la voce di una grandiosa cantante soul capace di spaziare dal caldissimo R&B di You Give Good Love al bubblegum pop electro-boogie di How Will I Know, fino alla spazzatura hollywoodiana come The Greatest Love of All. E lei – questa era la parte che più confondeva – le cantava come se significassero tutte la stessa cosa, perché era così. Whitney avrebbe ottenuto trionfi più grandi e ha raggiunto il picco creativo da donna adulta, ma la potenza vocale del debutto ha cambiato il modo in cui le voci pop si sono espresse nei quindici anni seguenti.

83. “Paid in Full” Erik B. and Rakim

Rilassato e grezzo come il diamante, Rakim era uno dei migliori rapper degli anni ’80 e questo album è uno dei motivi per cui lo era. Paid in Full è uno dei primi album hip hop ad abbracciare pienamente i campionamenti funk degli anni ’70 inserendoli in classici come I Know You Got Soul e la title track. Ma erano la voce incredibilmente figa di Rakim e il suo flow apparentemente privo di sforzi a scioccare gli ascoltatori, assieme all’audacia di frasi come: “It’s been a long time, I shouldn’t have left you / Without a strong rhyme to step to / Think of how many weak shows you slept through.”

82. “Heart of the Congos” The Congos

Con tutto il rispetto verso i Wailers, questo disco del 1977 messo in piedi dal duo vocale formato da “Ashanti” Roydel Johnson e Cedric Myton è probabilmente il set reggae più psichedelico e spiritualmente potente mai fatto, e il più grande successo del famoso produttore giamaicano Lee “Scratch” Perry. Armonie soprannaturali si mischiano in un vortice di echi e riverberi assieme a muggiti cibernetici e altri effetti sonori, mentre gli uomini cantano di Jah, Africa e Bibbia, facendo dell’arte che è al tempo stesso un rituale religioso, una sostanza stupefacente e musica. Che è esattamente il punto.

I Clash e i Sex Pistols si erano scagliati contro il lato mercantile del rock, ma i punk marxisti dei Gang of Four scavarono ancora più a fondo nella “nuda terra dietro i sogni del capitalismo” senza sembrare pallidi laureandi. Il mix di furia punk e attacchi funk di Entertainment! fu una rivelazione. Le hit di Andy Gill, col suo staccato chitarristico, suonavano perfettamente sotto il belare del cantante e autore dei testi Jon King. L’aggressività rigida e convulsa di canzoni come Damaged Goods, Anthrax e I Found that Essence Rare influenzarono chiunque dai Red Hot Chili Peppers all’intera scena dance-rock della DFA Records.

80. “Mr. Tambourine Man” The Byrds

“Wow, puoi pure ballarci su questa roba!”, disse Bob Dylan quando ascoltò le interpretazioni delle sue canzoni pesantemente armonizzate e con il suono delle chitarre a dodici corde elettriche dei Byrds. Il debutto tenero ma tosto del gruppo ha definito il folk-rock con versioni di Pete Seeger e Dylan e chitarre incisive. La sua influenza su generazioni di rock and roll “tintinnante” lo rende uno degli album più visionari degli anni ’60. I brani di Dylan divennero molto più famosi, ma le canzoni originali (I’ll Feel a Whole Lot Better) erano altrettanto grandiose.

Nel novembre 1955, la RCA Records acquisì il contratto, i singoli e master di Elvis non pubblicati dalla Sun Records per 35mila dollari. Il suo primo album fu pubblicato sei mesi dopo, con tracce prese dalle sessioni alla Sun e altre registrazioni effettuate negli studi RCA a New York e Nashville. “Non c’era nessuna pressione”, disse il chitarrista Scotty Moore a proposito delle prime session RCA. “Erano solo studi più grandi con equipaggiamenti diversi. Praticamente entravamo e facevamo le stesse cose di sempre”. In tracce come Blue Suede Shoes significa una versione esaltante del country interpretata dal cantante dalla voce più sexy di sempre.

78. “The Stone Roses” The Stone Roses

Prima che gli Oasis, i Blur e la loro razza inventassero il brit pop, ci fu nel 1989 il debutto omonimo degli Stone Roses , che spuntarono fuori dalla scena ricca di ecstasy e proto-rave di Manchester con un suono che riaffermava la gloria dell’impetuoso rock & roll britannico. Pur essendo debitori dei R.E.M. e delle loro melodie, gli Stone Roses non avevano niente della timidezza dell’indie rock. Il manifesto di quest’album, d’altronde, è intitolato I Wanna Be Adored, una frase che cantata suona molto come “I wanna be your dog”. Il che è appropriato: anche gli Stooges erano punk che volevano essere adorati.

Un afro-ebreo canadese, ex star adolescenziale della tv, che rappa del malessere derivante dal provarci con qualcuno su beat ambient down tempo? Non sembrava esattamente la ricetta per un classico dell’hip hop (e nemmeno per un successo commerciale), ma con il suo debutto del 2010 Drake ha riplasmato il rap – e pure il pop – a sua immagine e somiglianza. Thank Me Later è diventato un classico, costruito per essere ascoltato dall’inizio alla fine, con produttori come Noah “40” Shebib e Boi-1da capaci di costruire un mood di ostentata lentezza, con il rap di Drake che mischia spacconaggine e blues – un principe della festa con un lato un po’ depresso. Certo, è anche un campione delle parole: “I’m busy getting rich, I don’t want trouble / I made enough for two niggas, boy-stunt double”.

76. “Are We Not Men? We Are Devo!” Devo

La maggior parte delle band cerca di trovare un sound totalmente nuovo per il loro album di debutto. I Devo li hanno superati sviluppando una nuova filosofia – il vangelo della ‘devoluzione’ di cui l’America anni ’70 aveva bisogno – e presentandosi come “robot suburbani arrivati sulla Terra per intrattenere forme di vita aziendali”. La band attaccava le fabbriche a catena di montaggio della loro Akron, in Ohio, suonando canzoni come Jocko Homo, Uncontrollable Urge e una versione di Satisfaction che spogliava l’originale degli Stones fino alla sua struttura più essenziale.

75. “Beauty and the Beat” The Go-Go’s

Il gruppo femminile più famoso della new wave surfò in cima alle classifiche con questo debutto coinvolgente. Tutti conoscono We Got the Beat e Our Lips Are Sealed, canzoni esuberanti che ravvivarono la top 40, ma tutto l’album unisce uno spirito quasi punk a un pop festaiolo – dall’inno losangelino This Town fino al power pop di Skidmarks on My Heart e Can’t Stop the World. È un panorama di spiagge piene di ragazze dispettose e ragazzi carini, e un’immagine della California del Sud indelebile quasi quanto quelle dipinte dagli Eagles e dai Doors.

Il pop era in fase massimalista, pieno di beat eurodance scoppiettanti e produzioni rococò, quando questi indie rocker londinesi sono arrivati con un messaggio musicale radicalmente diverso: less is more. Crystallized e Islands sono capolavori di minimalismo, canzoni costruite su semplici progressioni di accordi, chitarre delicate e ostinati alla tastiera, con la mano gentile di Romy Madley-Croft e il canto di Oliver Sim. È musica bella, un esercizio di semplicità, una lezione su come si sfruttano lo spazio e il silenzio. È anche un po’ funky (date un ascolto alla bonus track, una cover di Hot Like Fire di Aaliyah) e, contro ogni previsione, sexy – è musica da appuntamento per il jet set dei blogger rock.

73. “Come Away With Me” Norah Jones

Forse il blockbuster più sorprendente del XXI secolo, con oltre 10 milioni di copie vendute, questo album ha reso interessante il pop easy listening. La magia è tutta nel fraseggio sexy, vellutato e senza sforzi di Jones. Ma è la scelta delle canzoni in scaletta, tra cui Cold Cold Heart di Hank Williams e The Nearness of You di Hoagy Carmichael, accanto a gemme composte da una nuova generazione di artigiani, la vera eccellenza del disco, con arrangiamenti che bilanciano jazz e pop leggero senza mai scadere in soluzioni sdolcinate. Il risultato è un compromesso tra un bacio languido e un tiro di bong.

Nel loro primo album, i Led Zeppelin stavano ancora inventando il loro sound, cercando di superare i rave-up chitarristici della precedente band di Jimmy Page, gli Yardbirds. Ma fin dall’inizio, gli Zeppelin hanno fuso l’emozionante chitarra di Page e gli ululati di Robert Plant. “Stavamo cercando di capire che cosa ci liberava di più e cosa liberava la gente”, ha detto Plant. Eppure il modello di tutto ciò che gli Zeppelin sarebbero riusciti a fare negli anni 70 è qui: rock brutale (Communication Breakdown), tonanti power ballad (Your Time Is Gonna Come), e folk blues dal retrogusto acido (Babe I’m Gonna Leave You).

71. “What’s the 411” Mary J. Blige

Mary J. Blige e il produttore Sean “Puffy” Combs hanno costruito un ponte ricoperto di platino tra i mondi dell’hip hop e dell’R&B, facendo guadagnare all’artista il titolo indiscusso di “Regina dell’hip hop soul”. Blige era tosta come rapper, ma anche vellutata e dolce come una diva d’altri tempi, e con canzoni invitanti ma un po’ ruvide come Real Love e Reminisce ha portato un nuovo realismo nella scena R&B. What’s the 411? è stato importante quanto Illmatic o Ready to Die, gettando le fondamenta per donne indipendenti come Lauryn Hill e Beyoncé.

La 22enne cantante e chitarrista Polly Jean Harvey ha pubblicato il suo feroce debutto solo sei mesi dopo il rivoluzionario Nevermind dei Nirvana. Ma con il suo trio britannico ha ideato un tipo di rock alternativo al grunge di Seattle, sia quando canta quasi senza fiato “I’m happy I’m bleeding” sui riff della chitarra di Captain Beefheart, sia quando si adagia metaforicamente in un sacco per cadaveri (Plants and Rags) o quando scrive un remake sessualmente amplificato del mito di Sansone e Dalila. “Ci ho messo tutto quello che avevo dentro”, disse anni dopo. “Era un album veramente estremo”. Lo è ancora.

I Wire erano gli scontenti più arguti e creativi della classe punk britannica del ’77. Sfoderavano raffiche di power chord e urli primordiali che facevano sembrare i Sex Pistols simili ai Traffic. Pink Flag cerca di reinventare il rock dalle fondamenta – dal crescendo devastato dalla guerra di Reuters fino al power pop statico di Ex Lion Tamer e il romanticismo dolce e scheletrico di Fragile. È diventato uno degli album indie rock più influenti di sempre e uno dei dischi più ‘coverizzati’ di tutti i tempi – i Minor Threat e gli Elastica hanno rifatto 12XU, i R.E.M. Strange, gli Spoon Lowdown, i New Bomb Turks Mr. Suit, i fIREHOSE Mannequin e così via.

I Talking Heads si vestivano come se fossero stagisti presso l’agenzia che riscuote le tasse e abbracciavano la normalità come se fosse una forma di ribellione. “Per lungo tempo ho pensato: beh, fanculo tutti”, disse David Byrne a Punk Magazine nel 76. “Adesso voglio essere accettato”. Il risultato fu un suono ingegnosamente compresso ma ritmato, e testi così normali che sembravano al limite della follia: “I see the laws made in Washington, D.C. / I think of the ones I consider my favorites / I think of the people that are working for me”. L’agghiacciante Psycho Killer, invece, era pazza e basta.

67. “Get Rich or Die Tryin'” 50 Cent

Nelle mani di Fiddy, la thug life non era solamente uno stile di vita – era un codice, un ethos, un sentiero zen verso la gloria nel mondo dello spettacolo. Quando Dr. Dre ed Eminem lo lanciarono nel 2003, l’America non riusciva a fare a meno di questo stallone fisicato, tatuato e crivellato di colpi. Il debutto di 50 era pieno di canzoni cupe e placcate al nickel, dove lui mostrava la sua immagine hardcore senza vergognarsi di fare canzoni anche per le ragazze: con hit come In da Club ha riempito le piste da ballo delle discoteche e dei bar mitzvah. Fun fact: Get Rich or Die Tryin’ ha guadagnato 9 dischi di platino, rendendo 50 il primo rapper a vendere un milione per ogni colpo che gli hanno sparato.

Alimentati da “un po’ di marijuana e un sacco di alienazione”, gli Stooges smentivano l’idealismo hippie, giocando con una ferocia che sconvolgeva persino i frequentatori di club più indifferenti. La band aveva un contratto con la Elektra, nonostante i dubbi del direttore Jac Holzman, che affermava che “gli Stooges riuscivano a malapena a suonare gli strumenti. Come avremmo potuto rendere tutto ciò un album?”. L’ex membro dei Velvet Underground John Cale creò un’ambientazione primitiva per il loro debutto, con i wah-wah di Ron Asheton e Iggy Stooge (nato James Osterberg) che ringhiava classici punk come I Wanna Be Your Dog, No Fun e 1969. L’album è stato un fiasco commerciale, ma ha dato senza dubbio vita al punk rock.

65. “Exile in Guyville” Liz Phair

Era praticamente impossibile non trovare questo punto di riferimento indie rock sullo scaffale dei CD nei dormitori delle ragazze più fighe a metà anni ’90. Un’espansione in studio della registrazione casalinga di Phair Girlysound, Exile era uno sbalorditivo doppio album che suonava come se le canzoni fossero passate dallo scoppiettante tronco cerebrale di Liz Phair direttamente su nastro, con la leggerissima mediazione di chitarre e batterie. Le canzoni ridotte all’osso causarono forti reazioni tanto quanto i testi che parlavano di sesso in modo franco come in Flower e Glory. Ma è l’onestà lacerante di tracce come Divorce Song che rimane, e Fuck and Run è una delle canzoni più tristi mai scritte sul sognare una storia d’amore e accontentarsi di molto meno.

64. “I Just Can’t Stop It” The English Beat

Si chiamavano The Beat e furono all’altezza del loro nome: nessun altro artista britannico ska revival aveva il loro senso del ritmo festaiolo. I Just Can’t Stop It dimostrò che erano una grandiosa band dance, con il canto ragamuffin di Ranking Roger e le dolci melodie al sassofono del maestro Saxa che galleggiavano su beat incessanti. Ma sapevano anche fare pop affilato. Le melodie e i testi del cantante Dave Wakeling gettavano uno sguardo acuto sul romanticismo e sulle politiche dell’era Thatcher. Il titolo è sia un manifesto, sia – se prestate ascolto alle parole della torrida Mirror in the Bathroom – una canzonatura dei bei ragazzi che si pavoneggiano.

63. “She’s So Unusual” Cyndi Lauper

La prima band di Lauper si era sciolta, lei aveva dichiarato bancarotta e cantava in un ristorante giapponese. Poi il debutto pieno di dance pop esuberante e acuto divenne il primo album di un’artista femminile a generare quattro hit da top 5 tra cui Girls Just Want to Have Fun e Time After Time. La cantante del Queens sembrava una Betty Boop punk e il sound era incredibilmente elastico – dalla cover di Prince When You Were Mine fino a una Witness tinta di reggae e a un’interessante interpretazione di Money Changes Everything dei Brains, che suona allo stesso tempo come una canzone arrabbiata su stronzi arrivisti e un inno all’ambizione personale.

Nell’Inghilterra dei primi anni ’70 c’erano l’art rock un po’ nerd e il glam rock un po’ sexy e raramente i due si incontravano. Fino a questo album. I Roxy Music mischiarono sperimentalismo futurista nella forma degli scarabocchi synth di Brian Eno con il fascino dei vecchi tempi nella forma del cantante in smoking Bryan Ferry. 2HB, un inno a Humphrey Bogart, volgeva lo sguardo indietro allo stato di grazia dell’Hollywood di un tempo, mentre l’electro-glitz di Virginia Plain dimostrava che la band era in grado di scrivere hit sensazionali, mentre il cyber-rock traslucido di Ladytron tracciava la strada poi imboccata dai Radiohead e altri.

61. “Up the Bracket” The Libertines

Prima di diventare famoso per motivi sbagliatissimi, Pete Doherty guidava i Libertines alla conquista della gloria punk col debutto del 2002. Prodotto da Mick Jones dei Clash, Up the Bracket (slang britannico per un pugno alla gola) metteva insieme armonie farfugliate, schitarrate scadenti e canzoni sempre sul punto di disintegrarsi. Poteva essere un disastro, ma grazie a Doherty e alla gigantesca scorta di ritornelli kinksiani di Carl Barat, l’album riusciva ad essere melodioso in modo strano e decisamente scadente – musica per una notte da brividi in città.

Nell’era di Alanis e Jewel, le onde radio pullulavano di artiste complicate un po’ naif che cantavano tragiche ballad sui loro occhi stregati, ma Fiona Apple si distingueva come una ragazza molto, molto cattiva. Era ancora adolescente quando registrò Tidal, ma la voce rauca di questa ragazzina abbandonata di New York e un piano jazz diedero alle sue confessioni un tono sorprendentemente adulto. Riuscì anche a scrivere una canzone iconica come Criminal, la storia di una giovane donna che non si è fatta alcuno scrupolo con un uomo troppo sensibile e ancora meno con se stessa. Era solo l’inizio: Apple si è artisticamente superata album dopo album.

59. “Fever to Tell” Yeah Yeah Yeahs

Ladies and gentlemen, Karen O! Il debutto degli Yeah Yeah Yeahs fece conoscere al mondo fuori da New York quest’incredibile frontwoman, che sembrava aver ingerito Pat Benatar a colazione mentre suonava Siouxsie and the Banshees. La splendida ballad Maps fu un successo sorprendente, ma la maggior parte dell’album vedeva O scagliarsi in potenti slogan come “We’re all gonna burn in hell!”, come una diva un po’ folle da scuola d’arte. Con i riff veramente tosti di Nick Zinner e la batteria imponente di Brian Chase, l’album raggiunse un livello di garage punk da intimorire i bassisti di tutto il mondo.

58. “Pretty Hate Machine” Nine Inch Nails

Quando Trent Reznor creò Pretty Hate Machine era semplicemente un altro sfigato new wave che non ce l’aveva fatta a diventare famoso durante la corsa all’oro degli anni ’80. Il suo tentativo di diventare famoso era stato fare la comparsa nel film La luce del giorno con Michael J. Fox e Joan Jett. Ma nelle sue fantasie registrate in studio diventava un arcidemone industrial che latra imperativi su beat meccanici: “Bow down before the one you serve / You’re gonna get what you deserve”. Con Head Like a Hole, Terrible Lie e Kinda I Want to, Reznor è diventato il re delle piste da ballo goth.

Due geek hipster conosciutisi alla Wesleyan accendono le loro tastiere vintage, scelgono strane fasce per capelli e compongono una serie di canzoni strappalacrime così perfette da far male al cuore. I pezzi di Oracular Spectacular diventano ancora più interessanti se ci sintonizza perfettamente con il cantato, ma non c’è bisogno di capire ogni singola parola di Kids per sentire la commovente stretta allo stomaco di questo ritornello composto da nove note. L’intero album è una bizzarra collezione di sensibilità psichedelica anni ’70 e spavalderia new wave anni ’80.

56. “For Emma, Forever Ago” Bon Iver

Justin Vernon è uscito dall’esotica Eau Claire, Wisconsin, per diventare il vate dell’indie dei tardi 2000. In poche parole, Emma è l’urlo di un uomo che in una baita di legno imbraccia una chitarra acustica e canta in falsetto di… beh, è difficile dire cosa, in realtà. Ma l’essenza è inconfondibile: splendidamente melodiosa, a volte talmente malinconica da essere allucinogena, vestita con armonie vocali e ronzii luccicanti che hanno anticipato il rinascimento folk-rock che accendeva spiriti affini come i Fleet Foxes e i Grizzly Bear.

55. “Supa Dupa Fly” Missy Elliot

Nessun album racchiude l’essenza gloriosa della radio anni ’90 come Supa Dupa Fly, la bomba avant funk che ha lanciato Missy come la padrona di Virginia Beach. Con il suo partner in crime Timbaland, Missy ha fatto dell’hip hop e dell’R&B il suo parco giochi personale, con una voce che cola soul mentre canta, rappa o semplicemente pronuncia le parole “beep beep” ogni volta che le riesce di farlo. Missy ha mostrato quel che sa fare in hit come The Rain, Sock It 2 Me e la folle Izzy Izzy Ahh, conquistando il mondo. Anni dopo, Supa Dupa Fly suona ancora come futuristico.

Date un’occhiata alla foto della band sul retro copertina: questi ragazzi non sembravano per niente delle rock star anni ’80. Sembrano quattro capelloni che credono in modo fervente nel metal. Era abbastanza per cambiare il mondo. I Metallica potranno essersi ispirati a band britanniche come gli Iron Maiden o i Diamond Head, ma sono riusciti a trasformare questa influenza in qualcosa di nuovo e distinto nei riff veloci e thrash di Hit the Lights, il cui titolo rappresenta esattamente quello che suonavano.

53. “New York Dolls” New York Dolls

“Could you make it with Frankenstein?” si chiedevano questi proto punk dal fascino glam e mica scherzavano. Prodotto da Todd Rundgren, il veloce, economico e fuori controllo New York Dolls metteva assieme il blues decadente degli Stones, la spregiudicatezza di strada delle Crystals e il rumore infuocato dei Velvet Underground in canzoni come Personality Crisis, Trash e Bad Girl. Si vestivano come prostitute, ma riuscirono praticamente da soli a fare entrare la vita di strada newyorchese in una nuova era, con un appetito e un’intensità che nessuna primadonna britannica glitter rock poteva eguagliare. Il rock non si è ancora ripreso.

Troppo ingegnosi per il punk, troppo poco ironici per la new wave, gli U2 di Boy sono sognatori con l’ambizione di affermarsi. Non era la prima volta che qualcuno aveva il fegato di pensare che il post punk potesse avere il pubblico e la portata dell’arena rock (la prima scelta del produttore da parte della band, prima di optare per Steve Lillywhite, era Martin Hannett, già produttore dei Joy Division). Il quartetto di Dublino si gloriava dell’incredibile voce di Bono e della chitarra effettata di Dave “The Edge” Evans, ma anche di canzoni grandi come la più amata nei club I Will Follow. Ogni dettaglio degli arrangiamenti è pensato per avere un impatto esilarante. Arriveranno fan in quantità.

Frustrazione sessuale, lunghi sospiri, un grande amore per Oscar Wilde, i Velvet Underground, gli Stones e i girl groups, l’adorazione per il cinema: è tutto nell’album di debutto degli Smiths, un lavoro incredibilmente originale. Il sound rivoluzionario derivava in parti eguali dallo spirito tetro di Morrissey e dallo stile chitarristico di Johnny Marr. In Still Ill e This Charming Man Moz arranca nelle tristi paludi inglesi, in Suffer Little Children canta di infanticidio. Era un nuovo tipo di rock star (uno che cantava versi come “For the good life is out there somewhere / So stay on my arm, you little charmer / But I know my luck too well”) e ha cambiato l’iconografia del pop inglese.

Prodotto da Ray Manzarek dei Doors, è il primo grande album punk della West Coast. Le canzoni volano come scintille, compresa la cover di Soul Kitchen dei Doors, l’apripista Your Phones Off the Hook but You’re Not e la torrida Johnny Hit and Run Paulene influenzata da William S. Burroughs, tutte alimentate dalla mano rockabilly del chitarrista Billy Zoom, dalla batteria di D.J. Bonebrake, dalle armonie stridenti e dalla poesia stradaiola di John Doe ed Exerne Cervenka. Una canzone riassume perfettamente il loro messaggio: The World’s a Mess, It’s in My Kiss.

È diventato tutto un po’ più vivace quando sono apparsi questi ragazzi danzerecci scozzesi coi loro pantaloni stretti e le loro canzoni più orecchiabili di quelle delle altre band in circolazione. I Franz hanno detto che la loro missione è fare “musica che le ragazze possono ballare”, con chitarre frenetiche e melodrammi disco come Take Me Out, Michael e Darts of Pleasure. Il canto di Alex Kapranos è tutto sensualità gotica e mascara mentre canta frasi da rimorchio come “I can feel your lips undress my eyes”. Kanye West ha detto che fanno crunk bianco, Lil Wayne ha rifatto This Fire e la band fa ancora ballare le ragazze.

48. “The Modern Lovers” The Modern Lovers

Jonathan Richman si trasferì da Boston a New York quand’era un adolescente sperando di dormire un giorno sul divano di Lou Reed. Quell’influenza si fa notare nell’inno composto da due soli accordi Roadrunner. Registrato nel 1972, ma pubblicato solo nel 1976, Lovers trasformava i suoni duri dei Velvet Underground in un’ode al romanticismo suburbano, all’amore puro, ai genitori, agli anni ’50 e a tutte quelle cose per niente fighe nei primi anni ’70. “[Il rock] non riguardava le droghe e lo spazio”, disse anni dopo, “riguardava il sesso, i ragazzi, le ragazze e così via”.

47. “The Piper at the Gates of Dawn” Pink Floyd

“Sono tutto polvere e chitarre”, disse Syd Barrett dei Pink Floyd a Rolling Stone. Ecco il suono che aveva. Il debutto della band è giocoso, tutto immaginari psichedelici e chitarre acide. Astronomy Domine mostra il lato pop del gruppo; The Gnome si sballa con osservazioni del tipo “Look at the sky / Look at the river / Isn’t it gooooood”; Interstellar Overdrive è una follia di chitarre orgiastiche che lascia ancora un formicolio dietro la testa. La visione di Barrett della psichedelia era libera dal blues, una grande innovazione nell’Inghilterra degli anni ’60, e il suo personaggio geniale e folle è stato una stella polare per un mucchio di strambi asociali.

Ai tempi del debutto, i Pearl Jam stavano praticamente facendo a gara con i Nirvana in un concorso di popolarità nel grunge che alla fine avrebbero perso. Eppure Ten è un album quasi perfetto: il growl agonizzante di Eddie Vedder e gli assoli di chitarra di Mike McCready su Alive e Jeremy portano entrambe le canzoni al limite. Mentre i Nirvana rompevano col classic rock, i Pearl Jam lavoravano nella tradizione dei Who, dando agli emarginati e dimenticati rifugiati della generazione X il palcoscenico che meritavano. La loro influenza non è calcolabile e – nonostante Creed – decisamente grandiosa.

45. “Psychocandy” The Jesus & Mary Chain

Ragazzi scozzesi con bellissimi capelli, una cute terribile, pantaloni di pelle e magliette nere abbottonate fino al collo che surfavano su un’onda di malinconia divertendosi un mondo. Il debutto dei Mary Chain è un capolavoro decadente di bubblegum pop (vedi Just Like Honey, My Little Underground e Never Understand). Psychocandy ha avuto un’influenza potente su entrambe le sponde dell’oceano, ha ispirato lo shoegaze in Inghilterra e la tensione rumorosa dell’indie pop negli States. Band come The Pains of Being Pure at Heart e album come il magistrale Loveless dei My Bloody Valentine sono impossibili da immaginare senza quest’album.

Mentre gli hippie aspiravano il flower power nel 1970, questa band di Birmingham preferiva fumi solforici. L’album che ha probabilmente inventato l’heavy metal è stato costruito su tonanti canzoni blues-rock come The Wizard, che suggeriva la stessa ossessione per Il Signore degli Anelli che avevano i Led Zeppelin. Ma la title track, con il famoso riff di Tony Iommi, avrebbe definito il sound di mille band. E mentre Ozzy Osbourne cantava “my name is Lucifer, please take my hand” su N.I.B., era difficile non sentirsi attratti dal lato oscuro.

Benedetto da un pedigree impressionante (era il figlio dell’icona folk-pop degli anni ’60 Tim Buckley) e da una voce di gran carisma ed estensione, Jeff Buckley era perseguitato dalla maledizione del perfezionista. Aveva appena scartato una bozza del secondo album e stava per ricominciare a lavorarci quando è annegato in uno strano incidente a Memphis nel maggio 1997, rendendo Grace il suo unico album in studio completato nella sua breve esistenza. Ma è un’eredità ricca che comprende il mix coinvolgente di chitarre sinuose e canto melismatico di Buckley in Mojo Pin e Grace, la spavalderia da band di garage e il pathos vellutato di Last Goodbye e So Real, il modo in cui Buckley trasforma l’Hallelujah di Leonard Cohen in una delicata e personalissima preghiera.

Con una tempesta di chitarre che infuriava come gli Stones in stato di grazia, questa band di Manchester dichiarò i suoi intenti con Rock’N’Roll Star, un’audace dichiarazione arrivata nel bel mezzo della cultura alt rock e del culto dell’anti-celebrità e solo mesi dopo il suicidio di Kurt Cobain. Tutto furia, coraggio e riferimenti ai Beatles (ma anche a Bowie e ai T-Rex), l’album passa da un grande ritornello all’altro. E quando il ringhio di Liam si trasforma in falsetto in Live Forever, è chiaro che – almeno nei dischi – la band sarebbe vissuta per sempre.

Un punto di riferimento dell’hard rock degli anni ’70, dalle strade non così pericolose di Swampscott, Massachusetts. Tom Scholz, un ingegnere della Polaroid laureato al MIT, ha speso anni nel suo studio in cantina ad escogitare la formula per il sound perfetto. L’ha trovata ed è il motivo per cui i Boston sono rimasti in rotazione radiofonica costante sin da quel momento. Le chitarre sembrano epiche, ma anche delicate e intime, in momenti emozionanti come Something About You e Peace of Mind. In More Than a Feeling, Scholz costruisce un monumento al desiderio romantico di un giovane adulto, con ogni secondo cesellato con cura quasi scientifica per ottenere l’impatto più potente possibile, fino a che la batteria di Sib Hashian non riempie il fade-out finale. Torna indietro, Mary Ann, torna indietro!

Quando i membri dei Television si materializzarono a New York, all’alba del punk, suonavano un mix di generi non esattamente coerente: le urla dei Velvet Underground, un art rock un po’ cervellotico, la chitarra a doppia elica dei Quicksilver Messenger Service. Era un debutto esilarante nei testi tanto quanto il primo disco dei Ramones era brutalmente semplice e ancora stupisce. Friction, Venus e la potente title track sono allo stesso tempo ruvide, disperate e belle. In quanto a credenziali punk, non ci scordiamo dell’elettricità criptica e dell’esistenzialismo strozzato che emergeva dalla voce e dai testi del chitarrista Tom Verlaine.

Fin dall’inizio, questi ragazzi arruffati provenienti da Jacksonville, Florida suonavano e vivevano in modo forte e schietto, con tre chitarre che infuriavano in una musica che superò la linea Mason-Dixon per farne la più grande band boogie-rock d’America. Scoperti e prodotti dal braccio destro di Dylan a metà degli anni ’60, Al Kooper, gli Skynyrd offrirono pezzi rock belli tesi come Poison Whiskey e l’inno da accendini” (beh, adesso iPhone) Freebird. Loro sono forse la più grande band di Southern rock e questo album è invecchiato incredibilmente bene. Chiedete ai Drive-By Truckers.

38. “Outlandos D’Amour” The Police

Sarebbero diventati molto più grandi, ma non sono mai stati altrettanto freschi. Dal basso sincopato di Sting alla chitarra prog di Andy Summer fino alla precisissima batteria di Stewart Copeland, i Police erano post punk che sapevano suonare e assorbivano reggae e jazz nel sound del debutto che suonava in modo assolutamente originale. L’osé Roxanne, Next to You e So Lonely dimostrarono che Sting era già un eccellente autore pop. Queste canzoni sono nel DNA di chiunque, dai No Doubt agli U2.

37. “Greetings From Asbury Park, N.J.” Bruce Springsteen

“Madmen, drummers, bummers and Indians in the summer with a teenage diplomat”. Iinizia così il Boss, srotolando una lista di personaggi da una città costiera del New Jersey che avrebbe cambiato il panorama del rock’n’roll. Growin’ Up era la cosmogonia di un ragazzo che si inventava sul palcoscenico, For You anticipava l’inno di fuga esplosivo Born to Run, Spirit in the Night lanciava l’indomito soul di Clarence Clemons e il suo sassofono. L’inizio di una corsa pazzesca.

36. “Give Up”  The Postal Service

Pubblicato vent’anni dopo che il synth pop era dato per morto e poco dopo l’abbandono dell’elettronica in favore dell’indie rock, questa gemma del 2003 fu creata dal cantante dei Death Cab For Cutie, Ben Gibbard, che stava per dare il meglio, con il maestro dell’EDM Jimmy “Dntel” Tamborello. Pieno di beat frastagliati e sostenuto da cameo vocali di Jenny Lewis dei Rilo Kiley, questo diario di viaggio riuscì a raggiungere una perfezione che la band principale di Gibbard non era mai riuscita a toccare. Qualche milione di copie dopo, si può dire che sia un’ispirazione per tutto il pop elettronico. Chiedete a Owl City.

Quando è stato pubblicato, il debutto dei Weezer non era che un album power pop un po’ strano, con un paio di singoli pronti a diventare hit: Buddy Holly e Undone (The Sweater Song). Poi la band di Rivers Cuomo è diventata una delle principali influenze dei giovani punkettoni tristi che adesso pensano agli Weezer come a pionieri emo. Mischiando ammiccanti interpretazioni con ritornelli seriosi, e la sensibilità con un profondo disinteresse nell’allora turbolenta guerra culturale dell’alt rock, gli Weezer sono riusciti a fare un album che è invecchiato molto meglio dei seriosi indie-rocker di allora – dozzine dei quali si riferirono agli Weezer come “uno scherzo mal riuscito delle major”. Beh, chi sta ridendo adesso?

Dopo aver sconvolto chiunque quando erano la house band al Whisky-a-Go-Go, da cui vennero licenziati per aver suonato il dramma edipico The End, i Doors erano pronti a scatenare il loro rock nel mondo. “Per ogni canzone abbiamo provato ogni arrangiamento possibile”, diceva il batterista John Densmore, “quindi l’intero album ci sembrava solido”. Break On Through (to the Other Side), Twentieth-Century Fox e Crystal Ship sono canzoni art pop che andavano oltre la capacità di attenzione della Top 40. Ma i Doors giocarono sporco e modificarono una delle loro canzoni per la radio: era Light My Fire, scritta dal chitarrista Robby Krieger quando Jim Morrison chiese a tutti i componenti della band di scrivere una canzone con un immaginario universale.

Venivano da Las Vegas, non dal Regno Unito, e l’anno era il 2004, non il 1983. E allora? I Killers volevano comunque essere i Duran Duran. Hot Fuss era un’esplosione di irresistibili groove synth e testi sul sesso, sul ballo, sulla gelosia e sul piegare le costrizioni di genere, portate a segno da Brandon Flowers nel migliore/peggiore accento britannico del mondo. All These Things That I’ve Done era la hit, che cresceva fino al magnifico e svitato ritornello “I got soul but I’m not a soldier!”. Mr. Brightside e Smile Like You Mean It saranno sempre suonate in bar scadenti alle 2 del mattino. Miglior frase: “I take my twist with a shout”.

32. “3 Feet High and Rising” De La Soul

Alla fine degli anni ’80, i De La Soul presentarono un nuovo stile chiamato D.A.I.S.Y. Age che stava per “Da Inner Sound, Y’All”. Guidavano il collettivo Native Tongues: niente catene dorate, solo campionamenti, skit, battute e beat. Questo album felice e disteso è il suono della classe media che allarga le possibilità del rap espandendo il suo oggetto di ricerca e il suo sound. Il produttore Prince Paul prendeva da chiunque, dal P-Funk a Hall and Oates fino a Johnny Cash. E su tracce come Eye Know e Me, Myself and I, i De La Soul presentarono un eclettismo ottimistico che era un’alternativa alla spavalderia conformista della scena rap.

I Portishead usavano alcuni elementi dei Massive Attack, loro colleghi trip-hopper di Bristol  – beat storditi, campionamenti jazz, chitarre dal vivo, dinamiche cantante donna/produttore uomo – ma lo stile canoro pop-cabaret di Beth Gibbons dimostrò che potevi sentire il dolore vero su un groove in dissolvenza. Dummy aveva un sacco in comune con i beat di RZA del Wu-Tang Clan, ma la sua profondità evocava noir degli anni ’40 e ballate notturne. Quando Gibbons canta “Nobody loves me… it’s true / Not like you do” sul fragile campionamento di Sour Times di Lalo Schifrin, sembra quasi di sentire Billie Holiday.

30. “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” Arctic Monkeys

Questa è una success story bella strana in campo brit pop: dov’erano le dichiarazioni di stile e le fidanzate modelle? Beh, tutto quello di cui i Monkeys avevano bisogno per conquistare il mondo erano pezzi sconnessi e alcolici che descrivevano che cosa significava essere giovani e annoiati in una squallida città industriale. Alex Turner cantava di aspettare tutta la settimana l’arrivo del sabato sera solo per tampinare le ragazze del posto con cui ci aveva provato la settimana prima. Grazie alle melodie stridenti di Turner e alle chitarre storte della band, la band ha conquistato anche l’America con gemme da pub come la furiosa e sexy I Bet You Look Good on the Dance Floor. È il debutto di una band che ha venduto più velocemente nella storia del Regno Unito, un bel riconoscimento se pensate ai competitor.

29. “Enter the Wu-Tang (36 Chambers)” Wu-Tang Clan

L’hip hop della East Coast tornò alla ribalta nel 1993 grazie a nove uomini di Staten Island, New York, MC affascinati dalla mitologia delle arti marziali di Hong Kong e grazie all’amore del produttore RZA per le atmosfere minacciose. L’hip hop era stato più duro in passato, ma non era mai stato così sporco. Pregno di polverosi campionamenti soul e pezzi di piano da brividi, i beat epocali di RZA sembrano fluttuare in fumi di marijuana, un ambiente lussureggiante e minaccioso perfetto per i protagonismi di Rakewon, GZA, Method Man, Ghostface Killah e altri. Negli anni ’90 i Wu hanno infettato hip hop e R&B come un virus impossibile da curare.

28. “The B-52s” The B-52’s

Il debutto dei B-52’s ha il suono di un gruppo di amici di scuola superiore che fanno battute, escogitano buffi e inventano soprannomi in un album new wave. “Non pensavamo che sarebbe uscito dal nostro giro di amici di Athens, Georgia”, da detto a Rolling il cantante Fred Schneider. Venne fuori che nessuno riusciva resistere al funk artistico un po’ camp della band o agli strilli eccentrici e ai tagli di capelli vaporosi di Kate Pierson e Cindy Wilson (Pierson suonava l’organo e contribuì perciò a definire il sound della band). Suonavano con strumenti giocattolo e il loro look da mercatino dell’usato era originale e creativo quanto la musica che era piena di fantasia e colorita – si ascolti Rock Lobster.

Un frontman che si atteggiava da macchina dell’amore in spandex, un guitar hero con le dita che volavano tra le corde, una sezione ritmica da festa alcolica: i Van Halen erano la party band definitiva e il loro debutto dà l’impressione che gli anni ’80 siano arrivati in anticipo di due anni. Canzoni come la ritmata Runnin’ with the Devil, la muscolare Atomic Punk, la cover rombante di You Really Got Me e Ain’t Talkin’ ‘Bout Love riportarono il vecchio swag dello show-biz nell’hard rock. La tecnica impressionante di Eddie Van Halen alzò l’asticella per gli artisti delle sei corde, particolarmente su Eruption, l’assolo che ispirò migliaia di ragazzi che avrebbero cazzeggiato nei negozi di chitarre.

26. “Run DMC” Run-D.M.C.

Un album rap?! L’idea era a dir poco bizzarra nel 1984, ma il debutto di Joseph “Run” Simmons, Darryl “D.M.C.” McDaniels e del dj Jason “Jam Master J” Mizell cambiò le cose e trasformò radicalmente la cultura pop americana. Canzoni come Sucker M.C.s e Hard Times hanno messo da parte gli echi disco del primo rap sostituendoli con raffiche di rime e beat tosti. La musica aveva la sfacciataggine, la sfrontatezza e il volume del rock’n’roll e su Rock Box c’era persino un audace chitarra metal. “Our DJ’s better than all these bands”, rappavano. Sembrava una vanteria, era una profezia.

I Pavement erano la quintessenza della rock band indipendente americana e questo album è la quintessenza dei dischi indie rock. Il modo in cui i musicisti suonano è molto libero, la produzione è rilassata e primitiva, i testi arguti e giocosi, le melodie dolci e seducenti. Ma il sound era intenso quanto il rumore bianco dei Velvet Underground. Registrato con pochissimi soldi a Brooklyn e nello studio del batterista a Stockton, California, Slanted and Enchanted è uno degli album rock più influenti degli anni ’90. Il suo stile è riconoscibile nella musica di Nirvana, Liz Phair, Beck, Strokes, White Stripes.

I Vampire Weekend spuntarono fuori dalla Columbia University alla fine degli anni 2000, mostrando un certo gusto per mocassini e camicie, ma anche un’intima conoscenza della musica africana. Il loro debutto ha ricevuto un sacco di attenzione dalla stampa con canzoni pop-rock soavemente seducenti su college e signorine vestite in Benetton. Le melodie ‘paulsimoniane’ di Ezra Koenig erano raffinate tanto quando la sua educazione e galleggiavano su tastiere limpide e groove quasi afrobeat. Koenig aveva un termine per la musica dei Vampire Weekend: Upper West Side Soweto. Comunque la vogliate chiamare, è stata una manna per i ragazzi modello Brooklyn e le ragazze alla Molly Ringwald di tutto il mondo, e ha spinto l’indie pop a scoprire i suoni world.

23. “Ready to Die” The Notorious B.I.G.

“Mentre stavo registrando l’album” disse B.I.G. a Rolling Stone nel 1995 “mi alzavo tutte le mattine, spacciavo, marinavo la scuola, mi occupavo di mia madre, della polizia, di delinquenti; rischiavo la mia vita ogni giorno per vendere droga, capisci cosa intendo?”. B.I.G. (aka Biggie Smalls) prese tutta la sua crudo vita da strada e la concentrò in Ready to Die, il miglior album del più grande rapper mai esistito e il debutto hip hop più bello di sempre, senza ombra di dubbio. Big Poppa è la hit sensuale; Things Done Changed e Everyday Struggle si raccontano storie di gangster con una voce grossa quanto il suo girovita. “Sono senza dubbio uno scrittore”, disse Biggie, “non ho nemmeno idea di come si faccia freestyle.”

C’è forse una traccia apripista più brillantemente sgradevole – e per niente commerciale – di Blister in the Sun? Un trio di nerd di Milwaukee che utilizzava poco più di una chitarra, un basso e un rullante, i Femmes hanno fatto del pop da musicisti di strada anni prima che Marcus Mumford fosse anche solo concepito dai suoi genitori. E l’hanno fatto con un senso dell’umorismo tragico e malinconico. Quando Gordon Gano lamenta “Why can’t I get just one fuck!?” su Add It Up, senti la voce di ogni singolo adolescente frustrato fin dall’alba dei tempi. Non sorprende che sia diventato disco di platino.

21. “My Aim Is True” Elvis Costello

Ecco che cos’ha detto Costello su cosa aveva ispirato il debutto: “Ho passato un sacco di tempo con una grande tazza di caffè istantaneo e con il primo album dei Clash”. La musica non era selvaggia quanto quella dei Clash – è più pub rock che punk-rock – ma le canzoni hanno testi ficcanti quanto quelli punk, in particolare Waiting for the End of the World (“Dear Lord, I sincerely hope you’re coming / ‘Cause you really started something”). Le frasi d’apertura dell’album, “Now that your picture’s in the paper being rhythmically admired”, e la ballata velenosa Alison hanno lanciato Costello come uno degli autori di testi più acuti e malevoli della sua generazione. Si può dire che abbia reinventato il cantautorato di Dylan a sua immagine e somiglianza, ovvero quella di vendicatore dei nerd.

Questo album mozzafiato del 1979 fu per il punk quello che The Velvet Underground & Nico fu per la psichedelia: la rivelazione del sottobosco dark di un movimento culturale. Prodotto da Martin Hannett, che fa suonare la band come se stesse suonando in una cella frigorifera, il disco lancia Ian Curtis che urla il suo blues esistenziale con una disperazione così potente che in qualche modo trascende la mancanza di speranza (quando canta “I’ve got the spirit”, nella pazzesca apripista Disorder emoziona e fa raggelare il sangue). Un modello per innumerevoli rock band a venire.

19. “The College Dropout” Kanye West

Era un beatmaker già meritevole della Hall of Fame – l’inventore del Chipmunk Soul – ma Kanye West voleva rappare ed è arrivato al debutto nel 2004 grazie a Jay-Z, suo mentore e capo della Roc-A-Fella Records. Il risultato era hip hop come nessuno l’aveva sentito prima: gospel riottoso (Jesus Walks), musica da boudoir (Slow Jamz), drammi familiari strappalacrime (Family Business). Era un sound che combinava, come l’ha messa giù Kanye, “una Benz e uno zaino”, affliggendosi sul materialismo nonostante ci sguazzasse dentro. E poi c’era Through the Wire, una delle più grandi canzoni rappate a denti stretti.

“Volevamo fare un album senza tempo”, ha detto il chitarrista Peter Buck del debutto degli R.E.M. e la sua band “tecnicamente limitata” (a detta del produttore Don Dixon) ci riuscì, eccome. Buck era un erudito del rock che aveva lavorato in un negozio di dischi, mentre il cantante Michael Stipe srotolava i testi che sembravano scritti in un linguaggio in codice. Murmur è fatto di chitarre squillanti e mistero. I testi e le melodie sembrano sepolte, sono quasi subliminali, e anche le canzoni con delle specie di ritornelli, come Radio Free Europe e Sitting Still, non sono del tutto chiare. Murmur è uno dei dischi che sta alla base dell’alternative rock, pubblicato mentre la generazione X si apprestava ad andare al college.

17. “Please Please Me” The Beatles

I Beatles registrarono 10 delle loro 14 canzoni del primo album allo studio EMI di Abbey Road in sole 12 ore, l’11 febbraio 1964. Solo per la produttività, è uno dei debutti più grandiosi della storia del rock. I Beatles avevano già inventato un nuovo sound – un assalto di energia dirompente e armonie vocali impeccabili – e l’hanno messo a fuoco usando cover e inediti del loro repertorio live: Boys delle Shirelles, Anna di Arthur Alexander, ma anche There’s a Place e I Saw Her Standing There di Lennon e McCartney. John Lennon distrusse ciò che restava delle corde vocali nelle due take di Twist and Shout.

Nessuna band era riuscita a creare un debutto così traboccante di classici radiofonici. “Scherzando si diceva sempre che il primo album doveva chiamarsi The Cars’ Greatest Hits”, disse il chitarrista Elliot Easton. I Cars erano artistici e intensi tanto da essere parte della scena new wave di Boston, ma essere anche così orecchiabili che quasi ogni traccia (My Best Friend’s Girl, Just What I Needed) era degna di uscire come singolo. L’idea era che la raffinatezza e il fascino pop potessero convivere. Band come Weezer, Strokes e Fountains of Wayne non sarebbero esistite senza quest’album.

Perdita, amore, crescita forzata e fragili speranze generazionali: il debutto degli Arcade Fire toccava tutti questi temi e ha definito il rock indipendente degli anni 2000. La band di Montreal suonava una specie di rock sinfonico usando fisarmoniche e strumenti a corda come elementi centrali e non come accessori, con una sezione ritmica che non rallentava mai. Canzoni come Wake Up, Neighborhood #1 (Tunnels) e Rebellion (Lies) erano grandiose e al tempo stesso personali, come il miglior pop in circolazione. C’era del realismo triste – “I like the peace in the backseat”, canta Régine Chassagne alla fine dell’album, sapendo che il senso di sicurezza è oltremodo fittizio – ma era pur sempre musica che cercava sollievo e conforto nell’abbraccio di una comunità.

“Stare in studio era come andare dallo psichiatra”, ha detto Jay-Z a Rolling Stone, e il suo debutto è pieno di sogni e lamenti di uno spacciatore. Il disco ha lanciato Jay come uno dei rapper di punta della sua generazione e include il testo brillante 22 Twos e un’apparizione dell’allora sedicenne Foxy Brown su Ain’t No Nigga. Ma il pezzo forte potrebbe essere l’ancora oggi pazzesca Brooklyn’s Finest, un duetto tra Jay e Notorious B.I.G., due titani sulla via della ridefinizione della loro forma d’arte. Non ancora il party man che tutti conosciamo, il Jay-Z di Reasonable Doubt è un emarginato che raggiunge nuovi livelli di bravura nello scrivere i testi. Quando uscì, il centro di gravità dell’hip hop si era spostato pienamente dalla West Coast di nuovo alla East Coast.

Dopo anni di avanti e indietro tra l’Ohio e l’Inghilterra, scrivendo recensioni di album e passando il tempo con i Sex Pistols, Chrissie Hynde formò una band tosta quanto lei. Il debutto perfetto dei Pretenders è pieno di new wave rock no-nonsense come Mystery Achievement e una cover di Stop Your Sobbing di Ray Davies dei Kinks (con cui tre anni dopo avrebbe fatto un figlio). La grande hit era Brass in Pocket che parlava di ambizione e seduzione. Hynde, tuttavia, non era sicura del successo del pezzo. “Quella canzone mi imbarazzava”, diceva. “La odiavo così tanto che se fossi stata da Woolworth e l’avessero trasmessa, sarei scappata dal negozio”.

“Non mi faccio illusioni su niente”, ha detto Joe Strummer. “Nonostante ciò, voglio comunque provare a cambiare le cose”. L’ambizione giovanile esplode in The Clash, una raffica di canzoni assurdamente belle sulla disoccupazione (Career Opportunities), la razza (White Riot) e gli stessi Clash (Clash City Rockers). La chitarra era suonata per la maggior parte del tempo da Mick Jones, perché Strummer non considerava la tecnica abbastanza punk. Negli Stati Uniti la pubblicazione fu ritardata di due anni e alcune tracce britanniche furono sostituite da singoli più recenti come Complete Control, guarda caso una lamentela proprie su quel tipo di operazione discografica. Tuttavia, la visione radicale della band è ben distillata in entrambe le versioni.

Nas aveva solo 20 anni quando pubblicò il debutto, ma era già un maestro nell’arte dello storytelling. Nessuno era riuscito a catturare l’incombente minaccia della vita sulla strada come questo prodigio delle case popolari di Queendsbridge, New York. Con beat senza macchia creati a puntino da Large Professor, DJ Premier, Pete Rock e con l’assistenza nei testi da parte di Q-Tip, l’album evita ogni inutile sbrodolata ed è perciò perfetto per il soggetto trattato. Frasi come “I never sleep, ‘cause sleep is the cousin of death” hanno reso Nas il nuovo Rakim. Tutti erano sul pezzo. Anche l’ospite AZ, che non ha avuto una gran carriera, fila che è un piacere in Life’s a Bitch: “We were beginners in the hood as Five Percenters / But something musta got in us, cuz all of us turned to sinners”. L’alba di una nuova era.

Fin dalla frase “Jesus died for somebody’s sins, but not mine” che apre in modo provocatorio l’audace remake del classico garage rock Gloria di Van Morrison, l’album di debutto di Smith è una dichiarazione di ammutinamento e di fede nel potere trasformativo del rock’n’roll. Horses ha fatto di lei una regina del punk, ma a Smith interessava maggiormente la poesia del rock. Le sue visioni che mettevano in connessione Keith Richards e Rimbaud sono diventate un disco grazie all’aiuto di una band da paura (il pianista Richard Sohl, il chitarrista Lenny Kaye, il bassista Ivan Kral e il batterista Jay Dee Daugherty) e dell’amico Robert Mapplethorpe, autore della foto di copertina.

9. “Music from Big Pink” The Band

Tutti i rocker devono qualcosa a quest’album che abbraccia coraggiosamente la tradizione americana e una semplicità senza pretese, pubblicato in epoca di proteste e psichedelia. Big Pink era una casa rosa a Woodstock, New York, dove The Band, il gruppo che aveva accompagnato Bob Dylan nel ’65-66, si era trasferita per stare più vicina a Dylan dopo il suo incidente in moto. Mentre si riprendeva, la band lo aiutò sulle demo successivamente note come The Basement Tapes e registrò questo debutto. Dylan si offrì di suonare nell’album, loro rifiutarono gentilmente. “Non volevamo approfittarne e cavalcarne l’onda”, disse il batterista Levon Helm. Dylan contribuì comunque in quanto autore di I Shall Be Released e co-autore di due altre canzoni. Ma era la bellezza rustica della musica di The Band e l’incisiva drammaticità delle loro riflessioni su famiglia e obblighi, vedi The Weight, a rendere Big Pink un instant classic.

8. “Is This It” The Strokes

Poche band hanno curato l’aspetto della loro musica quanto gli Strokes del debutto. Prima che Is This It uscisse, i ragazzacci mod di New York erano i fenomeni della notte. Passarono dall’Avenue A fino ai titoli di giornale e le inevitabili ripercussioni, tutto in un anno. Julian Casablancas, i chitarristi Nick Valensi e Albert Hammond Jr., il bassista Nikolai Fraiture e il batterista Fabrizio Moretti erano fatti per diventare star, aggiornando la propulsione dei Velvet Underground e gli stridii del punk anni ’70 con le frasi acide di Casablancas sui casini della notte prima. Gli Strokes hanno ispirato la rivoluzione musicale nel Regno Unito guidata dai Libertines e dagli Arctic Monkeys, e l’eco si sentì anche negli Stati Uniti, con i Kings of Leon. Nella mezz’ora di Is This It le ombre di New York tornarono ad essere eccitanti.

7. “Never Mind the Bollocks” The Sex Pistols

“Se le session fossero andate come volevo io, sarebbe stato un disco inascoltabile ai più”, ha detto Johnny Rotten. “Ma immagino sia questa la natura della musica: se vuoi che la gente l’ascolti, devi scendere a compromessi”. Pochi la pensavano così all’epoca. L’unico album in studio dei Pistols terrorizzò un’intera nazione fino a sottometterla. Rifiutava tutto quel che il rock’n’roll e il mondo intero avevano da offrire. Ok, la musica era meno scioccante dei testi di Rotten che cantava di aborti, anarchia e odio in Bodies e Anarchy in the U.K., ma non import: è il Discorso della Montagna del punk inglese e il suo eco è ovunque.

6. “Straight Outta Compton” N.W.A.

Questo disco segna l’inizio del gangasta rap, ma è anche la rampa di lancio per le carriere di Ice Cube, Eazy-E e Dr. Dre. Mentre i Public Enemy erano i rivoluzionari dell’hip hop, i N.W.A. celebrvano la thug life (questo era il loro primo vero album dopo una collezione di tracce prodotte da Dre per loro e altri artisti era stata pubblicata nel 1987 a nome N.W.A. and the Posse). “Do I look like a motherfucking role model?”, chiede Ice Cube in Gangsta Gangsta, “to a kid looking up to me, life ain’t nothing but bitches and money”. La rabbia di Ice Cube, combinata con i beat e le sirene di polizia di Dr. Dre, producevano un sound da paura in Express Yourself, A Bitch Iz a Bitch e Straight Outta Compton. Ma è stata la riottosa Fuck Tha Police a far guadagnare alla crew l’onore più grande: una lettera minacciosa dell’FBI.

5. “The Velvet Underground and Nico” The Velvet Underground

Tanto di ciò che diamo per scontato nel rock non esisterebbe senza questa band di New York e il suo debutto The Velvet Underground and Nico: l’androgina sensualità del glam; il crudo noir punk; l’ululato cupo del grunge e del noise rock. È un album dall’ampio respiro e dai testi profondi. Lou Reed documentò il desiderio carnale e la dipendenza alla droga con la saggezza pop imparata quando scriveva per la Pickwick Records. Il polistrumentista John Cale introdusse il potere dei pulsioni ritmiche e dei droni (retaggio dal suo lavoro nel minimalismo); il chitarrista Sterling Morrison e la batterista Maureen Tucker suonarono con impeto tribale; Nico, vocalist tedesca voluta nella band dal manager Andy Warhol, portò un’algida femminilità all’ennui scottante delle canzoni di Reed. Rifiutato come nichilista dal pubblico nel ’67, il Banana Album (chiamato così per la copertina disegnata da Warhol) è l’album rock più profetico mai creato.

4. “Appetite for Destruction” Guns N’ Roses

L’album di debutto che ha venduto di più negli anni ’80 e il più grande game changer dell’hard rock dai tempi di Led Zeppelin IV, Appetite è molto di più delle urla di Axl Rose. Il chitarrista Slash portò nella band l’emozione del blues e l’energia del punk, mentre la sezione ritmica metteva del funk su hit come Welcome to the Jungle. Quando gli elementi si combinavano, come nei due minuti finali di Paradise City, i Guns N’ Roses facevano mangiare la polvere  a tutte le altre band metal degli anni ’80, e lo sapevano, eccome. “Un sacco di rock band sono troppo rammollite per provare emozioni”, disse Rose, “a meno che non stiano soffrendo”.

3. “Are You Experienced” The Jimi Hendrix Experience

L’idea che abbiamo del chitarrista come artista solista rivoluzionario viene da quest’album. Era il sound del Regno Unito nel tardo ’66, inizio ’67: fiammate arcobaleno di blues, feedback di chitarre orchestrali e la visione cosmica personalissima dell’emigrato afroamericano Jimi Hendrix. La sua chitarra incendiaria è entrata nella storia, era la somma luminescente del lavoro svolto al fianco di Little Richard e degli Isley Brothers nel cosiddetto chitlin-circuit e dello sfruttamento in chiave melodica delle qualità dell’amplificazione. Ma è stato il calore di canzoni come Manic Depression e The Wind Cries Mary a dettare il tono trascendentale della psichedelia. Hendrix faceva musica soul per lo spazio interiore. “È una collezione di sentimenti liberi e di immaginazione”, disse dell’album ”L’immaginazione è molto importante”.

“Le nostre prime canzoni vennero fuori dai nostri sentimenti reali di alienazione, isolamento e frustrazione, sentimenti che tutti provano tra i 17 e i 75 anni”, ha detto il cantante Joey Ramone. In appena 29 minuti, Ramones rigettava gli artifizi tipici del rock anni ’70 e poneva le basi per la rivoluzione punk-rock. Le canzoni erano svelte e ribelli, proprio come la band: Beat on the Brat, Blitzkrieg Bop, Now I Wanna Sniff Some Glue. Il chitarrista Johnny Ramone si rifiutava di suonare assoli – i suoi accordi che sembravano uscire da un martello pneumatico divennero la lingua internazionale del punk – e l’intero disco costò solo seimila dollari. Ma l’appello di Joey I Wanna Be Your Boyfriend mostrò che anche i punk hanno bisogno d’amore.

1. “Licensed to Ill” Beastie Boys

Una dichiarazione potente e perfettamente formata che i Beastie Boys non sono più riusciti a eguagliare, Licensed to Ill ha imposto un nuovo modo di fare rock in America – combinazioni fragorose di beat hip hop, riff metal e rime esuberanti e intelligenti – anche se prendevano il testimone dai Run-DMC per poi portare la musica rap nel cuore degli Stati Uniti. Diventerà il primo album hip hop ad arrivare al numero uno in classifica e uno dei dischi rap più venduti di tutti i tempi. Mike D, Ad-Rock e MCA sono poi cresciuti e hanno abbandonato i racconti da confraternita e la visione del mondo festaiola di quest’album, ma hit come (You Gotta) Fight for Your Right (to Party!) e Rhymin’ & Stealin’ vengono continuamente scoperte da nuove generazioni di ribelli scapestrati, un po’ come avviene con le canzoni degli AC/DC e dei Led Zeppelin che rappresentavano il punto di riferimento per i primi Beasties. È il tipico album di debutto che conquista il mondo intero: novità scioccante e influenza duratura.

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