Racconto a dispense - prima parte
Il prode Viglietti entra nell’ampio parcheggio riservato dietro il palazzo a vetri. Ferma lo scooter dalla parte opposta a quella per i mezzi della PS, vicino agli uffici della motorizzazione. Scuote la testa e sorride amaramente. E’ un po’ che al mattino presto ha preso questa abitudine: si è scocciato abbastanza degli scherzi infantili dei colleghi, dei bigliettini lasciati sul manubrio… “con quella nuova dell’ufficio xy ci provi subito, eh?”,… “ma non stavi con la ragazza dell’hair style…?” etc.
Che poi, metti caso la Mirca al lunedì mattina ti passa a fare un saluto tipo sorpresa tenera senza avvertire: valla a disconvincere quella, che ti pianta un c….. da mal di testa e ci vuole tutta la settimana a riallacciare! Eppure quei bambinoni ce l’avrebbero il loro da fare. Mah!
Attraversa tutto il cortile/parcheggio godendosi il fresco di un maggio non ancora estivo, il cielo chiuso dai quattro palazzoni a trapezio, e i quattro alberi di Giuda (che nome per fiori così belli!) che ingentiliscono lo squallore dell’asfalto. Entra dalla porticina riservata al personale PS, azionando la tessera magnetica dopo una breve occhiata alla telecamera esterna. Sale i quattro metri di gomma nera nel primo corridoio che gli ricordano l’imbarco in aereo della prima vacanza con Mirca, e svolta a sinistra. “Buongiorno ispettore”: la PS di guardia alla scrivania isolata gli sorride con sincerità; potrebbe essere, nelle fantasie dei mattacchioni, un esempio di “quella nuova”. Viglietti ricambia e augura buon lavoro, proseguendo diretto per un corridoio più lungo e accogliente approda alla porta in anodizzato chiaro e fòrmica celeste opaca. La apre deciso preparandosi alla solita scena:
la Laura sarà in piedi, in divisa, al bancone davanti al grande cubo trasparente che è l’ufficio del commissario Borachia, la lunga robusta gamba sinistra diritta, il piede destro appoggiato indietro di punta, il pistolone e le manette che le pendono sui glutei, mentre guarda il brogliaccio della notte con eventuali annotazioni di quelli di guardia; non risponderà niente mentre altri due o tre sparsi qua e là si godranno la scena; allora incomincerà la solita breve scaramuccia, fin quando lei con ironia affettuosa dirà: “…e smettila, Viglio! inizia a lavorare!”
ma ‘stamattina non va precisamente così, nonostante la prevista postura dell’amica collega.
Ha appena aperto la bocca per dare il via al copione, che lo sguardo scivola e si fissa sulle poche sedie in plastica davanti all’ufficio. Una signora sui quarantacinque portati bene rimane seduta e lo guarda con un breve sorriso, come a scusarsi. Viglietti corruga un poco la fronte e rimane in silenzio, lasciando fare le domande al percorso degli occhi. Lei ha i capelli neri corvini, lisci, tirati indietro a sangue e fermati in una breve coda, e gli occhi dello stesso colore. Le sopracciglia e le ciglia confermano quanto sopra; uno sguardo inquieto ma privo di ogni paura. Questa immagine intensa contrasta col naso, leggermente, simpaticamente a patata, e le labbra di un bel colore privo di rossetto, di una dolcezza materna. La tenue camicetta alla crema si chiude sotto il collo bianchissimo, castigata e non bacchettona; ma la gonna nera si ferma poco sopra il ginocchio, fasciandole la coscia accavallata in modo molto, molto più eloquente che se l’avesse lasciata molto, molto più nuda. Le domande di Viglietti terminano sulle scarpine blù, tacco tre e mezzo come salute e sobrietà vuole. La donna scuote impercettibilmente il capo, senza rinunciare al sorriso, stupita della mancante risposta. In un attimo disaccavalla le gambe e spinge con entrambe le mani il bordo della gonna ancora più verso le ginocchia.
“Desidera?” fa Viglietti falsamente burbero
“Starei aspettando il commissario Borachia”
” …e l’hanno fatta passare!”
“sì… ho chiesto all’entrata; è che il commissario un po’ lo conosco e…”
A questo punto, la scena rimandata per un po’ finalmente si concretizza: “E smettila Viglio, per favore!” fa la Laura “se ha detto che lo conosce!”
il prode ispettore si mette platealmente a uguale distanza fra la signora e la collega, apre un poco le braccia come a indicare entrambe:
“il fatto è che se in un posto – e questo vale soprattutto per chi l’ha lasciata passare – ci sono delle regole e…”
il commissario Borachia passa sempre, letteralmente sempre, dalla porta principale della Questura Centrale, sperando e ottenendo di parlare un po’ qui un po’ là coi ragazzi degli altri uffici, scuriosando sui fermati della notte, etc., il che gli è servito non poco più volte per il suo mestiere; anche se lui lo fa così, per conoscere la vita, la città; per non fissarsi su un pensiero solo. Cosa sempre sbagliata, soprattutto a una certa età come i quaranta inoltrati. Spera e ottiene quasi sempre di arrivare poco dopo i suoi diretti collaboratori. Apre l’altra porta, dalla parte opposta a quella del Viglietti, e saluta volutamente per prima la Laura, per fare dispetto; e le chiede come va e informazioni e così via.
Anche lui questa mattina rimane deluso nel programma. La donna ha appena voltato la testa fissandolo, e la lieve incertezza provocata dal rimbrotto dell’ispettore si fa dolce speranza nei suoi occhi. “Buongiorno” dice con un “sì” quasi nascosto del capo.
“Buongiorno” dice il commissario, senza nascondere un contenuto stupore. Ovviamente non fa a tempo a parlare che interviene l’ispettore
“Questa signora dice che la conosce e l’attende. Va bene , ma l’hanno fatta passare, e questo invece bene non va. Non che io voglia intromettermi se…”
il commissario blocca il discorso con un gentile gesto della mano destra. Squadra ancora un po’ la donna incuriosito, senza nascondere un certo sforzo di memoria. Poi indica l’ufficio: “Prego, si accomodi”.
La donna fa sei passi che, nonostante la perfetta naturalezza asessuata del movimento, sono sicuramente quelli che la Primavera del Botticelli fece prima di bloccarsi per farsi ritrarre dall’artista; rompe e attraversa così quel filo invisibile in cui l’odio dell’ispettore si fonde con il sorriso ironico ma benevolo della bionda ps/valchiria.
Il commissario chiude la porta trasparente, e i due si accomodano, mentre gli altri due, in fretta riappacificati, si stanno profondendo in “la conosce veramente / però sembrava stupito/ beh magari non si vedono da tanto/ sì però…”
… “E’ successo qualcosa?” fa il commissario comprensivo ma con l’aria di chi pretende spiegazioni. La donna lo fissa ancora un poco, come una bambina accusata di una marachella che non credeva di avere commesso. E’ l’unica che ha capito perfettamente che il commissario non si ricorda per nulla di lei. Quindi fruga veloce nella borsetta; indugia ancora un poco, poi estrae un foglio scritto a mano:
Il commissario tende la mano lungo la scrivania,e la lascia così, aperta; la donna lo guarda immobile, poi cede la lettera. Borachia dà una scorsa alle prime righe, come volesse trarre un’ immediata impressione dalla calligrafia, evitando il contenuto; torna a fissare la donna, quasi interrogativo. Lei lo incoraggia lievemente con l’espressione del viso
So chi sei, e soprattutto cosa fai. Lo potrei raccontare a chiunque: non so se mi sono spiegato. Quindi vedi di farla finita con le persone per bene, o sarò costretto ad agire
“Si sente minacciata?” chiede il commissario
la donna guarda un po’ in basso, verso le proprie ginocchia. Sorride tristemente col lato destro della bocca, e senza alzare gli occhi dichiara calma:
“questa lettera non è… non sarebbe stata indirizzata a me”
Borachia non replica, corruga un po’ la fronte torna a domandare con il viso; ora lei gli si rivolge sincera, quasi scusandosi:
“Si tratta di mio marito; o forse dovrei dire del mio ex marito: non so. E non so se lei ora può dedicarmi altri dieci minuti con calma”
“Abbiamo iniziato, no? continuiamo, prego…” (lui sta notando sempre di più quanto questa persona tenga a esprimersi bene, con una certa precisione delle parole, come se esse avessero sempre il dovere di farsi capire, di dipingere la realtà. Lui conosce bene un’altra persona che fa così)
“io lavoro a scuola, alle superiori – (ah, ecco!) – conobbi mio marito cinque anni fa: era rappresentante di libri scolastici; però era un tipo particolare: gentile, senza piaggeria; a volte partendo dai libri si finiva a parlare degli autori che contenevano, con sincerità. Era un tipo sensibile. Presto mi accorsi che con altre colleghe non si comportava così… insomma: fu una cosa bella, e per un po’ continuò così, anche da sposati”
“poi, per farla breve, lui perse parecchi punti sul lavoro, e dopo un po’ il lavoro stesso. Nel frattempo io avevo ereditato un qualche soldo da una zia: non tantissimi, ma mi misi in testa di creare una scuola privata; seria, voglio dire…”
” in questa città, e in Italia in genere, non ce ne sono molte. Come mai questa idea?”
“il mestiere mi indisponeva: progetti inculcati da Roma, carte, schede, leggine, aggiornamenti teorici, discorsi, grandi fiere sportive e sociali… e sempre meno alunni, vite, istruzione, miglioramenti”
(“questi discorsi li sento spesso da qualcuno” pensa il commissario) “quindi l’ha realizzato, il suo progetto”
“Sì, ci sono riuscita: io faccio la preside, l’insegnante di tutte le materie umanistiche, e una mia amica fa tutte le scientifiche; insieme facciamo anche le segretarie e le bidelle. Abbiamo una classe all’anno, mai più di venti ragazzi in tutto. Le famiglie pagano 300 euro al mese; e così fra tasse spese e manutenzione tiriamo su due stipendi minimi. Ma i ragazzi e le ragazze ricevono la massima attenzione, li seguiamo passo passo, e sappiamo quando lasciarli soli per poi verificarli. Non facciamo mai nessuna iniziativa in più, ma abbiamo convenzioni con i musei e le palestre della città, con il teatro, e con qualche associazione culturale”
“Come dovrebbe essere in una scuola normale”
“…appunto. Per ora ce la facciamo. Gli esami esterni vanno a gonfie vele; i ragazzi lavorano sodo ma sono soddisfatti.”
“Bene” fa a questo punto Borachia, come dire: torniamo a noi!
“Già, mi scusi: mi stavo facendo un po’ prendere la mano”
“la sfortuna sul lavoro, contemporanea a questo mio nuovo impegno,a questo piccolo successo tutto mio, cambiò molto mio marito: divenne nervoso, intrattabile, geloso. Cercai di aiutarlo ma la vita si faceva sempre più un inferno. Un amico di entrambi, uno psichiatra, mi disse che in realtà stava rivelando una forma, seppur non grave, di schizofrenia. Forse lei sa già qualcosa…”
il commissario muove un poco la testa di lato, come dire “forse, ma vada avanti”
“…la schizofrenia non è quello che la gente crede: il dottor Jekyll e mister Hyde. Se è in forma leggera, lascia la persona tranquilla, fino a un punto in cui lui non si accetta,e se la prende con se stesso e con gli altri. E non c’è più niente da fare: convivere diventa impossibile
il commissario si incupisce e annuisce brevemente.
“Alla fine me ne sono andata. Ho ricavato una piccola stanza e un bagno nei locali della scuola. Ma non siamo ancora separati veramente. Io ho le chiavi della nostra casa. A volte vado a prendere cose che mi servono, stando ben attenta ad essere sicura che lui non ci sia. A volte ci incontriamo, cerco di comprenderlo, di aiutarlo. Credo, come persona, di volergli ancora bene. Per ora, mi sembra quasi impossibile, riesco a gestire questa situazione”
il commissario sorride un poco, benevolo.
“in una delle mie… visite segrete, due giorni fa, ho trovato questa lettera”
“non credo sia difficile: probabilmente mi ha vista con qualche genitore maschio all’uscita di scuola. A volte ho avuto dei colloqui al bar davanti, magari prendendo un caffè.
“Come mai ha lei il foglio, e lui non se ne è accorto?”
“”Me ne sono impossessata: l’ho portato via. Poi gli ho telefonato, cercando di ammansirlo. Fortunatamente era in buona: ha insistito con le più strane fantasie, come se io fossi in pericolo. Però per ora è andata bene…”
“è preoccupata per se stessa? Per il suo lavoro… per la scuola?”
“Forse. Anche. Ma soprattutto per lui: gliel’ho detto, non gli voglio male. Il mondo della scuola è un mondo pericoloso: ci si buscano delle denunce perché la bimba ha avuto un nove invece di un dieci: pensi a uno dei genitori dei miei ragazzi che riceve una roba del genere e riesce a sapere chi gliel’ha mandata: mio marito si metterebbe in guai che probabilmente lui, nelle condizioni in cui è ora, non riesce nemmeno a immaginare…”
Borachia però ora sta pensando a un altro particolare: e cioè che Viglietti ha affermato che la donna diceva di conoscerlo. Eppure sta continuando a dargli del lei.
“Scusi se la interrompo, professoressa”
“il mio ispettore, poco fa, diceva che…”
la donna sorride di nuovo: per la prima volta un sorriso aperto, sereno, che scopre un poco i denti bianchissimi: lo guarda negli occhi quasi divertita.
Il commissario ha un impercettibile sussulto. Apre la bocca due secondi. Poi esclama: “Lara!”
…era stato parecchio tempo prima, qui, nella sua città; quando non era ancora commissario, prima di andare per otto anni a farsi le ossa lontano. Una poliziotta intelligente aveva dato ascolto, con le dovute verifiche, a voci su atti di bullismo in una scuola media, e non si era vergognata a parlarne insistentemente con l’ allora ispettore Borachia. Il quale aveva chiesto un giro di colloqui informali con preside e insegnanti. In superficie tutti molto bravi e disponibili, ma (come lui si aspettava) la difesa del territorio, la paura di strafare, di beccarsi qualche denuncia dalle famiglie, e… di diminuire il buon nome della scuola e le conseguenti iscrizioni, come è prassi (da praxis cioè “allafinesiguardaiproprinteressi”) da quando in Italia ci si vergogna a costringere i bimbi a fare la scuola dell’obbligo più vicina nel quartiere dove abitano, inondando la città di automobili di genitori apprensivi per nulla indispensabili (entrambi), di aspettative e iniziative lontane anni luce da una normale educazione e istruzione di base,
– sappiate che Borachia queste cose le pensa tutte insieme in una frazione di secondo, e gli tornano tutte –
Due sole insegnanti avevano collaborato, critiche ma fiduciose: una era Lara; l’altra era Gloria.
Lara portava i capelli sciolti, lunghi, crespi. I jeans e la Tshirt più fissi delle puntine da disegno. E più o meno Gloria (per quanto riguarda le vesti) lo stesso. Entrambe sapevano il fatto loro. Lara però era più serena, più decisa, forse troppo, nelle sue scelte. La cosa era andata a finire bene: con messaggi ben precisi per tutti e fine della vergognosa usanza, ma senza punizioni draconiane che infierissero più del dovuto…
“…no, no! cioè sì! cioè volevo dire no ma … ecco…”
la donna ride di gusto, dimenticando per un momento i suoi problemi
“me la tiro da Dirigente, anche e soprattutto nel vestito”
“ti trovo benissimo, davvero. Certo mi spiace sentire dei tuoi guai”
“il momento brutto è stato all’inizio, quando le difficoltà sono venute fuori: ho visto cadere un sogno, un sogno semplice, ma in cui credevo. L’ho visto un’altra persona, e ho capito che, per il bene di entrambi, anch’io avrei costretto una parte di me stessa a essere un’altra persona. Ora è sempre triste, ma è anche , come dire…”
c’è una pausa consistente, poi Borachia completa: “una esperienza, una forza in più?”
“il lavoro, la tua scuola, almeno vanno bene?”
la donna tace una frazione di secondo più del dovuto; impercettibilmente turbata ha un piccolo moto delle sopracciglia; si ricompone subito e risponde:
“sono contento: almeno quello!… se vuoi torniamo alla faccenda per cui sei venuta: perché credo di capire cosa mi stai chiedendo, ma non ne sono sicuro”
“vuoi che in qualche modo lo allontani dai pericoli, lo spaventi diciamo con le buone perché non metta né te né se stesso nei guai: non vuoi altro credo. Per come ti ho conosciuto quasi dieci anni fa”
la donna abbassa lo sguardo; è di una dolcezza triste infinita; sussurra:
“beh ci penserò: non è semplicissimo ma nemmeno impossibile. Quando esci vai da Laura, quella valchiria che hai visto prima: se sei d’accordo fai con lei una fotocopia della lettera, e falle preparare una breve dichiarazione di quanto mi hai detto, comprese le ragioni che ti hanno spinto a venire da noi”
la donna tace e lo guarda un po’ apprensiva
Borachia sorride dolcemente: “dille di chiudere il tutto in cassaforte e di non verbalizzarlo. La tua copia del tutto fotocopiala ancora, e spediscine una copia a te stessa; e quando ti arriva non aprirla mai.
la donna appare grata e rassicurata
“e… Gloria l’hai più vista? ho saputo della disgrazie di suo marito, ma ormai è un po’. Ora sono a corto di contatti: che vergogna!”
adesso è il commissario a scoprire i denti divertito; si gode la suspance incuriosita, poi:
“sei un uomo intelligente…, e fortunato”
“ora è via con i ragazzi: quelle gite lunghe per dimostrare che una qualche Europa c’è… in attesa che i ragazzi diventino adulti e vedano che non è proprio così… . Ma quando torna potremmo invitarti, potreste rivedervi”
“volentieri. Spero di essere nello spirito giusto”
“beh: un po’ bisogna costruirselo, lo spirito giusto. Per quanto ne so dovresti esser brava”
la donna lo guarda ancora fisso. Uno sguardo intenso, serio. Si alza e riprende la lettera. Gli tende la mano:
“grazie ancora: non sai quanto”
Borachia è quasi stupito per questo saluto.
Ma lei si è già voltata, è uscita dal cubo dell’ufficio, e si sta rivolgendo gentilmente a Laura, sotto lo sguardo perplesso e corrucciato del Viglietti
Il commissario Borachia è in piedi, in silenzio, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo fisso a terra; vicino a lui Viglietti tiene i piedi leggermente distanziati, le braccia conserte; poco dietro Laura, che a metà mattinata avrebbe dovuto fare moine a un bar di copertura a un caporalato di lavori pesanti principalmente femminili, indossa una lisa tuta da jogging e scarpe da ginnastica di seconda qualità, la mancanza di trucco e il viso fintamente sbattuto aumentano il sincero dispiacere dello sguardo. Di fronte al terzetto, il professor Paolo Framènidi ha la stessa postura di Borachia, solo le mani restano unite in basso, fra la cintola e l’inguine. Le scarpe di cuoio nero, i pantaloni grigi fresco-di-lana, e una camicia azzurra sobria, di ottima fattura, con le maniche rimboccate all’avambraccio, terminano dopo un metro e ottanta in un viso occhialuto di quarantenne che rivela un unico messaggio: incredula disperazione.
In mezzo a loro, stesa a terra nel vestibolo del bagno femminile, la ragazza volge all’insù i palmi delle mani, abbandonate. Nonostante i jeans e le ballerine, e la felpa blù con scritto sopra in caratteri greci OCHI PRAGMATA, è impossibile non pensare all’ Ophelia di Everett Millais. La ragazza ha i capelli biondo cenere di taglio medio, incredibilmente composti. Le labbra sottili, semiaperte, e lo sguardo ora tanquillo. E’ morta.
Alle ore 11.30, la storica bidella Rosa del liceo Ceccardo Roccatagliata Ceccardi si recava nella toilette femminile per cambiare l’acqua alle cinque rose bianche del suo casottino d’entrata. Il vaso di cristallo le volava via dalle mani, facendosi a pezzi come il cuore della ragazza; l’acqua e le rose finivano a terra, un poco avanti, pietose in questo nel non lasciare quella figura giovane priva di un pensiero della natura in un simile momento. Il grido acuto della donna si sentiva nelle aule, e alunni e profe non facevano molto caso se era arrivato prima il rumore di cocci o prima il grido; qualcuno aveva ridacchiato immaginando tutt’altra scena.
Il preside, professor Framenidi, era un tipo sveglio e intelligente: il suo ufficio stava nel corridoio con le aule più numerose, tra queste stesse e i bagni dei ragazzi: per cui, era stato il primo ad arrivare. La ragazza era a terra rivolta un poco sul fianco, la mano destra si teneva il cuore come se lo stesse donando; la bocca pronunciava un grido muto.
Framenidi era riuscito – non sapeva nemmeno lui come – ad evitare un attacco isterico alla Rosa, poi, ricordandosi dei corsi obbligatori seguiti da insegnante, aveva tentato il massaggio cardiaco. Per questo ora la ragazza era sdraiata a viso in su.
Framènidi aveva desistito presto, e estratto il cellulare personale dalla tasca, aveva chiamato con poca convinzione il 118. Poi, implorando con lo sguardo, aveva ordinato alla Rosa di rimandare in classe, con una scusa, qualunque persona si avvicinasse per caso ai bagni. Quindi era rimasto vicino al cadavere. Per la prima volta nella sua vita, aveva constatato che si può avere nella testa nessun pensiero, ma soltanto un’immagine. In questo caso il viso di Clelia Arrighi, morta all’improvviso per attacco cardiaco nel bagno del suo liceo.
Quando i militi della Pubblica Assistenza avevano spalancato le portiere e zittito la sirena, si erano ritrovati davanti per puro caso Marco Rossi, il poliziotto di quartiere, che senza tanti discorsi era salito con loro, e sempre senza tanti discorsi aveva tirato fuori il suo cellulare personale dalle tasche, e aveva fatto il numero di Borachia, con cui si era trovato tempo prima a lavorare, e di cui si ricordava molto bene.
Borachia alza un poco il suo sguardo, che gli finisce su una scritta Li – Poska in rosa, sulla porticina dell’ultima toilette: 7 luglio 2015: una Rondinella ha preso il volo… ora mi aspetta la vita… ; sicuramente l’ultimo saluto della maturità passata. Già.
“Chiama il medico legale, Viglietti” dice Borachia; poi prima che l’spettore faccia il numero fa una leggera smorfia con la bocca e aggiunge:
“anche Della Monica: digli di portarsi il suo tablet con le foto. E ovviamente avverti la Bravo. Va’ a farlo di là per favore…”
quindi si rivolge al preside: “avete già chiamato i genitori?” il preside scuote tre volte la testa negando.
“A vete una psicologa convenzionata con la scuola?”
“Ci sa fare o arrotonda il mensile?”
“Credo possa essere adatta a sostenerli”
“Veda se può venire prima che loro arrivino”
Anche il preside allora lascia la toilette.
“Va’ con lui, Laura” dice Borachia. La donna lo guarda sottomessa e terrorizzata: “Vai!” ripete il commissario con decisione.
Negli Stati Uniti, circa sei milioni e mezzo di persone fanno uso di cocaina, in un’età che può partire dai dodici anni; in Italia circa cinquecentomila persone, per un’età che parte dai quindici anni. Si prova la cocaina per le più svariate ragioni, non solo a fini di sballo o convinti dal gruppo. A volte la causa è una depressione, o la necessità di trovare più energie, di essere più efficienti in un compito a cui si tiene particolarmente. L’effetto di sentirsi dio in terra può durare dai dieci ai trenta minuti, a seconda del modo in cui la sostanza viene assunta, della personalità del soggetto, e del suo stato psico fisico. Attendibili studi recenti affermano che la cocaina porta con sé l’inibizione della inibizione, cioè impedisce ai nostri campanelli d’allarme di valutare la pericolosità di ciò che si sta facendo.
Tre sono i modi in cui si può assumere cocaina: sniffando, fumando, o con un’endovena della sostanza sciolta in acqua.
I danni provocati dall’assunzione, anche limitata, della coca sono innegabili. La percentuale di coloro che, vittime di un attacco cardiaco, sono risultati consumatori di cocaina, sono incontrovertibilemte alte, e diversamente da quanto avviene per altre cause, l’attacco non risparmia nessuna età.
Spesso l’attacco si verifica il giorno dopo l’assunzione.
Quando la situazione lo aveva permesso, ai genitori era stato chiesto se la ragazza aveva di recente mal di testa e/o tosse più spesso del solito; se mangiava un po’ meno e se passava piuttosto inaspettatamente da stati di entusiasmo a stati di depressione.
Il medico legale aveva inarcato le sopracciglia (“lo sai che devo vedere meglio…”); poi però aveva concesso, solo davanti a Borachia: “ci sta tutta che si tratti di coca”.
Della Monica era arrivato col tablet sotto braccio. Aveva fissato a lungo la ragazza, smanettato un po’ sul tablet scuotendo la testa. Infine aveva detto: “non la conoscevamo… . Però devo sentire i miei ragazzi. E magari anche quelli di Bistracci.”
Borachia aveva sorriso tristemente . “Va bene”.
Poi si era piegato su un ginocchio solo davanti alla ragazza; dopo dieci secondi si era rialzato, e se ne era andato camminando lentamente.
…A marzo sul molo la temperatura quest’anno è ancora frescolina, ma il pomeriggio di giorno feriale ha riservato un sole pallido e un vento gentile. Riccardo e Alberto camminano, lentamente ma non troppo, con l’Ovest alle spalle tra le palme e le rose canine della passeggiata parallela alla città. Lo sguardo ogni tanto fugge sull’orizzonte e le due punte del fiordo mediterraneo: si distingue il loro verde da lontano; ogni tanto verso la grande nave appena attraccata sulla parte est: incominciano a sbarcare dalle pilotine i primi gruppi di una quindicina di persone a volta, ragazze nordiche col minimo indispensabile addosso misti a orientali di età indefinita, yankee di età avanzata e di forme abbondanti, sudamericani stretti nelle loro felpe da cui lasciano uscire solo lo sguardo incuriosito da una simile perla del mare, che vedranno otto ore in tutto; se va bene: perché forse li aspetta un pullman che in due corse forsennate li porterà in una grande gloria italiana e reimbarco, o nei posti di mare vicini, che sorreggono visite di due, tre, quattro volte quanto le loro strutture e fognature sono in grado di sostenere.
Non sanno che lì vive, moltiplicato di circa duecento volte, un popolo sulla pelle come il loro: variopinto, composito, ancora insondato e non sempre sondabile; che però non è in vacanza: lavora; oppure va a scuola.
“Marta si è offesa perché non l’ho invitata?”
“Ma figurati: ha capito benissimo di cosa si tratta!”
“Questo non significa che non dobbiamo unire l’utile al dilettevole” fa Riccardo indicando un casottino a metà della passeggiata. Le due del pomeriggio e il giorno feriale evitano la coda ai cartoncini di frittura -pescato-pronto-mangiato: Riccardo si avvicina al gestore, che lo riconosce e saluta cordialmente; risponde al saluto poi fa il segno di due con le dita; poco dopo ottiene i coni di carta grezza; eccezionalmente, il gestore infila da solo una forchettina di plastica in ciascuno. Alberto ordina una bottiglia di bianco locale, ma quando si dirige verso i bicchieri usa e getta l’uomo lo blocca con un gesto della mano:
“sedetevi tranquilli sulla panchina, arrivo subito, lasciate fare a me!”
i due obbediscono: la panchina parallela al mare è un blocco di travertino su due tozze colonnine; la occupano a cavalcioni lasciandosi il mare al fianco, uno di fronte all’altro. Poco dopo il gestore arriva con due calici di vetro,e li pone davanti a ciascuno di loro con un sorriso.
“Grazie” fa Riccardo; l’uomo se ne va soddisfatto mentre Alberto versa il primo bicchiere a entrambi.
“Dunque che cosa mi vuoi chiedere?”
“Nulla di preciso: così, in generale, da quello che sai tu, o da quello che vedevi a scuola finché ci lavoravi… sì che è passato qualche anno… a roba di droga lì dentro come si sta? Capisco che sto generalizzando…”
Alberto tace un poco e stringe un poco le labbra, poi lo guarda e risponde:
“Ecco questa è la prima cosa da dire: sarà sempre una generalizzazione; insomma ci sono classi o scuole quasi intere pulite, e situazioni sul serio da paura. Tieni presente poi che la corsa a imbarcare iscrizioni per il tuo istituto, o il fatto che le famiglie non vogliano far passare guai grossi al proprio figlio magari per un’improvvida sfumacchiata occasionale, induce a minimizzare, a sopire, sedare…”
ancora un po’ di silenzio, assaggiando i pescetti e il vino;
“…detto questo?” fa Riccardo un po’ ironico
“detto questo… vedi, tantissimi anni or sono un mio profe all’università mi spiegò come Levi-Strauss ragiona coi miti; tutti i miti, quelli dell’Amazzonia di ora e quelli dei Greci di 3000 anni fa…”
“io sono ignorante: ho fatto legge per far meno carciofate possibili nel mio lavor; mi serviva per fare questo lavoro… non puoi velocizzare?”
“arrivo subito al dunque, mi serve per spiegarmi meglio: quel tizio lì dice che noi guardiamo a ogni storiella mitologica come a una canzoncina; in realtà dovremmo guardarne il più possibile assieme, come il direttore d’orchestra abbraccia con lo sguardo lo spartito di tutti gli elementi che suonano per lui…”
“Così va guardato il mondo della scuola. O se vuoi, per usare un’espressione stupida, dei giovani.”
“Guarda quello che è successo l’altro giorno in Pakistan: la strage dei sedicenti guerrieri islamici, che hanno ammazzato un certo numero di brave persone mai viste né conosciute, e si son fatti ammazzare anche loro. Il più giovane aveva ventidue anni”
“…e prendi quella precedente, in Germania, più grave ancora: di quella io Marta e Gloria abbiamo un po’ parlato; non so se Gloria ti ha detto: tu non c’eri…” Riccardo nega col capo in silenzio
“Beh, Gloria ci ha raccontato che la mattina dopo, in classe, con l’interfono, la preside ha letto il messaggio della ministra: credere nei valori occidentali, nella cultura, nella scuola, garanzia di libertà, etc.. Quando l’interfono ha taciuto, Gloria ha detto ai ragazzini: magari sarebbe importante cercare anche di essere un po’ più buoni, ciascuno a modo suo ” la citazione della donna, ora lontana da lui, addolcisce Riccardo; dopo un piccolo sorso di bianco si mostra meno frettoloso, più interessato:
“Il punto è questo: ormai non è più importante cercare di essere un po’ più buoni. Quando hai osservato le leggi, pagato le decime (ammesso che le paghi), fatto le griglie di correzione dell’analisi del testo; fatto le analisi del sangue e le visite odontoiatriche a intervalli regolari, tutto è a posto”
Riccardo sospira. Si scopre incuriosito:
“Va bene, ho capito; ma cosa c’entra questo con la droga?”
“sic parva componere magnis licet”
“Questa la so anch’io! – fa Riccardo – un pochino ogni tanto studiavo, te lo ricordi: è Virgilio; vuol dire così si posson confrontare le cose piccole con le cose grandi”
“ Bravo! Molte persone fanno uso di droghe: leggere, pesanti e mezze e mezze. Quindicenni, ventenni, quarantenni, cinquantenni. E anche qualche sessantenne. Chi fa uso di quelle leggere pensa che sia un sopruso non legalizzarle, che sia colpa dello stato, che ci sia meno criminalità dove le hanno legalizzate. Magari è anche vero. Ma, intanto che lo stato sbaglia, hanno trovato il colpevole: non si chiedono per quali mani passi ciò che comprano o che qualche amico sorridendo gli passa in una serata radical-chic, se quei tizi ne vendono anche di pesanti magari grazie al commercio delle leggere, se in un modo o nell’altro ci è scappato il morto. E’ ovvio! Se lo stato legalizzasse…; intanto loro domande non se ne fanno: non vogliono rinunciare” Riccardo addenta un pescetto con calma:
“Mah! Tra i giovani forse tanti ragionamenti non li fanno; molti pensano che chi è pulito è uno sfigato e basta…S’intende, politically correct : uno sfigato da rispettare, ma intanto è uno sfigato… E poi, come va a finire la tua storia?” Alberto si incattivisce un po’ nello sguardo:
“Tu ne conosci ex sessantottini che adesso vanno in giro con la cravatta e muovono affari niente male, pubblici o privati?”
“Anche per loro la situazione è chiara: mica siamo trappisti che devono espiare: la storia va un po’ così, un po’ cosà; ora è cambiata: non è che se è caduto il muro devono fare gli insegnantucoli o gli impiegati tutta la vita: le capacità ce l’hanno, perché non metterle a frutto?”
“ergo: se metti insieme tutte queste canzoncine, che sinfonia ti viene fuori? Che spartito del direttore? Che dici?” Riccardo sta pochissimo in silenzio. Finisce il bianco, e poi risponde sicuro di sé:
“Io le leggi me le faccio da solo, basta trovare il gancio giusto”
“Bravo! Avevo un collega con capacità effettive, stimato da molti. Una volta con la vena del collo un po’ gonfia mi fa: non possiamo accettare un Dio che decide lui cosa va bene e cosa no, senza dirmi niente! ” Riccardo ride, amaramente e poco, ma di gusto
“E tu cosa gli hai detto?”
“Che se non c’è, non aveva bisogno di accettarlo; e se c’è, continua a fare come vuole in barba a quel che lui pensa…”
“Tornando a noi: secondo te quella ragazza si faceva le leggi da sola?”
“Tu mi chiedi delle storie, delle fantasie; che partono dalla realtà, ma delle storie e delle fantasie. E io ti accontento: in un certo senso sì. Poteva essere una brava ragazza, che studiava; che aspettava il momento giusto per l’amore vero. Oppure una che quando chiudeva il libri se la spassava a tutto spiano… chissà. Ma una cosa è certa: aveva studiato, aveva fatto le griglie e l’analisi del testo. Nel saggio breve non aveva mai scritto io penso o secondo me: non era come i suoi compagni che alla scuola dell’obbligo scaldavano i banchi e venivano promossi lo stesso. Lei non aveva bisogno dell’ipocrisia dei profe.: quello che faceva, lo faceva davvero. E un bel giorno: un paio di interrogazioni andate male, il rischio di scendere nella graduatoria mondiale del World School System”
“secondo te ci si va a cercare la coca per questo?” Alberto sorride triste:
“Ci può essere chi ti aspetta al varco. Ma te la puoi anche andare a cercare. Fa’ conto di non gradire le sardine: ci passi davanti tutti i giorni al mercato, le vedi brillare, ne senti l’odore penetrante, e non ti passa neanche per l’anticamera del cervello di comprarne mezza. Poi, un giorno, arriva tua cugina dall’America, e ti ricordi che va matta per le sarde. E dici: che fortuna, che abito a due passi dal mercato che tiene quelle bone!”
La luce della prima sera di marzo si è fatta più tenue; Alberto toglie di mano a Riccardo il cartoncino dei pescetti vuoto, e lo va a buttare con calma nel bidone. Riccardo riporta i calici al gestore:
“Grazie, Amelio: sei sempre gentile”
“Con lei è un piacere, commissario!” Riccardo raggiunge Alberto che si è già incamminato, noncurante del giudizio dell’amico.
“Non ti sono servito a granché, vero?”
“Mi sei stato utilissimo: dico sul serio”
il mare davanti al molo è quasi deserto. Un cargo sta raggiungendo la diga: tra pochi minuti sarà in mare aperto, e uomini di pelle varia forse per mesi non scenderanno a terra.
Riccardo sorride: non sa cosa o dove cercare, Come, adesso forse sì.
Come direbbe un eroe – vivo e vegeto – della divulgazione scientifica italiana; uno che, pur con tutti i difetti che gli eroi si portano dietro, è pur sempre un vero eroe, come direbbe lui appunto…: chissà quanti di voi si staranno chiedendo…
Chissà quanti di voi si staranno chiedendo: e la stampa locale, con la tragica fine della ragazza, che fine ha fatto?
Borachia come è noto non legge MAI la stampa locale; sente Prima Pagina al mattino e ruba nei bar qualcosina della stampa nazionale. A volte parla con Alberto, o con Marta, o con Gloria o con tutti e tre di qualche recensione più carina del solito.
La stampa locale nella città di Borachia è in buona parte formata da vestali (anche maschi) convinti di essere martiri denunzianti porcherie sotterranee. I colpevoli sono ovviamente quelli che non fanno parte della loro compagnia. E’ un fenomeno recentemente studiato anche da uno scrittore partenopeo niente male. Qualcosa si trova sempre, del tipo montes mures parient . Quel che più colpisce (o meglio che colpirebbe Borachia se leggesse) non è ciò che quelli pubblicano (menomale), ma quello che non pubblicano. Di solito questo corrisponde ad azioni positive di chi non la pensa come loro. Argumentum ex silentio…
Ci pensa qualcuno dei tre però (così, per dispetto fatto con piena avvertenza e deliberato consenso) a riassumergli bel bello all’improvviso qualche guasconata dei nostri informatori. Ad esempio recentemente Gloria gliene aveva descritta una davvero nauseabonda; e sì che gli vuole bene sul serio e sa che la gente alla sua età deve stare tranquilla il più possibile. Ma era stato più forte di lei ( guarda in che mani siamo… e pensare che in Sicilia c’è gente che ci è morta per scrivere la verità! e qui…! ):
c’era stata un perdita di potere amministrativo da parte di un’antica scuola del borgo. Ciò significava sostanzialmente avere meno agi in segreteria,e per il resto nulla sarebbe cambiato. Il giornale era uscito con CHIUSURA DEL LICEO etc.. La trovata era astuta : subito ci furono reazioni di ex allievi blasonati, di amministratori provveditoriali, e ovviamente dei più diretti interessati. E qualche copia in più, su un argomento da niente, si vendette. Comunque davvero pochino. La stoccata d’ingegno fu data dal presidente regionale degli informatori, che agendo su un social network, da buon ex allievo con cattivi ricordi, scrisse menomale che chiudono ‘sta roba vecchia. Il giornale finse di estrarre liberamente dal post un articolo cartaceo; il sabba non si fermava più (HO APERTO UN DIBATTITO! Gridava a distesa il vispo kathimerinico…); e allora si iniziò a ragionare con le vendite.
Ma i nostri lettori dovrebbero invece chiedersi che fine ha fatto nel frattempo Marco Rossi, il solerte poliziotto di quartiere ammiratore del Borachia.
Con tanto di divisa in chepì, MR si trovava la sera prima nell’ufficio del direttore della stampa locale; stringeva nelle mani robuste ma infantili una missiva vergata dal Borachia, che peraltro citava una fantomatica dottoressa Bravo; nelle righe scritte in stampatello malfermo, e non firmate, il povero commissario chiedeva gentilmente comprensione per la memoria privata di una ragazza venuta a mancare sicuramente per motivi di salute non scoperti in anticipo, e per lo stato dei suoi genitori ancora in vita …
“Questa richiesta non ha alcun valore: il suo capo lo saprà… – fece vagamente compunto il direttore
e poi, sembra che ci divertiamo a sfruttare le disgrazie altrui infangandone la memoria: è ovvio che quando facciamo un servizio ai lettori, lo facciamo nel pieno rispetto dei soggetti in questione: ci sono le leggi; ma ci sono soprattutto la nostra professionalità e la nostra umanità”
Il Rossi finse un gozzo, due occhi, un tono di voce e un lessico che non rispondevano al suo diploma superiore, non brillantissimo ma onesto e ottenuto più che dignitosamente; ancor meno alla loquela che esibiva con colleghe e colleghi nelle pause-caffé
“Non mi sembra il caso che vi precipitiate a spulciare nella scuola media di …, quando abbiamo ancora da lavorarci noi”
l’altro lo guardò gentile, ma con gli occhietti furbi della sfida:
“… è una richiesta; non è dovuta una risposta”
come da copione, il Rossi riintascava la lettera (che avrebbe potuto riferire tranquillamente a voce, ma far la parte del ragazzone ingenuo sfruttato dal suo capo gli piaceva troppo) e con sguardo vagamente cagnesco se ne andava. Erano le otto della sera.
La mattina dopo, una motoretta Vacanze Romane si inerpica per le colline affacciate sulla cittadina; un ragazzo e una ragazza sui quaranta inchiodano davanti all’unica scuola media del paesino, e chiedono, mostrando il glorioso tesserino, di vedere la Preside. L’anziana bidella apre un largo sorriso di ammirazione, e accompagna i due nell’ufficio con la bandiera e il ritratto del presidente. La preside li fa accomodare, raccomanda la bidella di portare al più presto tre caffé, e chiede a cosa sia dovuta la visita. Conosce già la risposta: si tratta certo della vittoria interregionale nella gara di pattinaggio a squadre, ottenuta da cinque sue ragazze.
Mezz’ora dopo i due quarantenni risalgono mestamente sulla moto e ridiscendono le amene colline circostanti la ridente cittadina di mare. All’ombra dell’ulivo antistante la scuola hanno confabulato un poco: lei lo guardava dal basso, con l’aria del finale di Casablanca. Lui distoglieva lo sguardo. Lontano, Prendevano insieme due importanti decisioni:
1.non telefonare subito al loro capo
2. non pubblicare (“per motivi di spazio”) nessun articolo sulle pattinatrici; pur brave e meritevoli.
In questo giorno, Marco Rossi come da tempo previsto termina il suo turno di poliziotto di quartiere. Gli amici delle volanti del Pronto Intervento lo accolgono bene: ha sempre meritato la loro stima…
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